Il Kibbutz Nir Am: Il 7 ottobre, e oggi
Roberto Coen ci racconta le vicende di uno dei Kibbutzim colpiti da Hamas il 7 ottobre, e l’impegno dei volontari per conservarlo in vita
Il 7 ottobre 2023, decine di migliaia di residenti nei kibbutzim e nei moshavim a sud di Sderot, al confine con la Striscia di Gaza, improvvisamente, sono stati costretti a rifugiarsi nelle zone centrali di Israele, per sfuggire a migliaia di razzi lanciati su di loro, provenienti dalla Striscia di Gaza, ed hanno dovuto abbandonare i terreni agricoli che rappresentavano il loro lavoro quotidiano e la loro maggiore fonte di ricchezza. Migliaia di lavoratori stranieri per non parlare delle migliaia di gazawi, che ogni giorno attraversavano il confine, per guadagnare dieci volte di più di quello che avrebbero guadagnato nella Striscia, non sono più arrivati ed i campi e le coltivazioni sono rimaste completamente abbandonate.
Nel kibbutz Nir Am abitavano circa 1.000 persone e, dopo essere stato abbandonato dai civili, viene utilizzato come base della logistica di una brigata dell’esercito impegnata a Gaza. La sua è una storia unica nell’ambito del pogrom perpetuato dai terroristi palestinesi di Hamas perchè in questo kibbutz non sono riusciti ad entrare e gli abitanti non hanno subito perdite. Il merito è unanimemente riconosciuto alla giovane responsabile della sicurezza che ha sentito i primi spari fuori dal kibbutz, tra una pattuglia dell’esercito, che normalmente il sabato veniva inviata per sorvegliare i residenti che, durante lo shabbat, avevano la consuetudine di passeggiare fuori dal kibbutz ed i terroristi che si avvicinavano al kibbutz per attaccarlo. La responsabile ha immediatamente allertato la sua squadra di volontari, che costituiscono la difesa del kibbutz, ha aperto l’armeria, consegnato le armi a sua disposizione, e questi uomini e donne, dislocati nei punti previsti, hanno respinto l’attacco dei terroristi che hanno così rinunciato ad entrare. Al termine dei combattimenti, cinque soldati israeliani sono rimasti feriti e diciassette terroristi sono stati uccisi.
Il kibbutz possiede migliaia di alberi di pompelmi destinati alle industrie di bevande ed ogni albero aveva molte decine di frutti ormai maturi e da raccogliere. Lasciarli lì sarebbe stato un delitto e così diversi gruppi di volontari italiani sono partiti da Roma, ma anche da Tel Aviv e da Gerusalemme, per dare il proprio contributo alla raccolta e per sostenere lo Stato di Israele in uno dei suoi momenti più difficili. Mentre lavoravamo il rumore di sottofondo non era quello degli uccelli (molti dei quali, ormai, volati via) ma quello delle bombe che l’esercito israeliano inviava nella Striscia di Gaza, i droni si sentivano volare sopra le nostre teste, ma non si vedevano, mentre gli elicotteri e gli aerei erano molto ben visibili, specialmente quello (che non dimenticherò facilmente) che per difendersi da eventuali razzi lanciava dietro di sé esche per attirarli lontano, ad intervalli regolari ed a debita distanza.
Insomma, in uno scenario di guerra ed un rumore di sottofondo di esplosioni, che non avevo mai sentito prima dal vero, abbiamo raccolto migliaia di pompelmi che, l’unico operaio filippino presente, alla guida del suo trattore, trasportava in contenitori grandissimi.
Un altro giorno siamo andati a lavorare nel moshav Netiv Ha Asara, dove vivevano, prima del 7 ottobre circa settecento abitanti ed oggi ne sono rimasti due. Eyal, che professionalmente proviene dall’hi-tech, non ha mai abbandonato il moshav, anche per continuare a sfamare le capre e le pecore che, per anni, gli avevano permesso di produrre e vendere formaggio. Eyal ci ha raccontati che la mattina del 7 ottobre tre terroristi sono arrivati nel moshav con il deltaplano in tre punti diversi e non vicini fra loro. Hanno cercato subito di riunirsi uccidendo le persone che incontravano per le strade ma senza entrare nelle case, almeno in un primo momento. I terroristi non sono riusciti ad aprire il cancello del kibbutz per farne entrare degli altri, perché la luce era stata staccata ed il cancello si poteva aprire solo elettricamente. Il moshav ha perso 20 persone, alcune di loro in combattimento, ed una sola casa è stata incendiata. Oggi il moshav appare spettrale. Solo qualche gatto, alla ricerca di cibo, passeggia per il moshav che appare come un’elegante zona residenziale di una città europea.
Passeggiando tra le case si capisce come esse siano state abbandonate all’improvviso e nei giardini delle villette ci sono ancora i giochi dei bambini che si muovono con il vento del deserto. Qui siamo stati messi a lavorare in un campo di melanzane, che non erano state raccolte quando erano verdi, ed ormai, diventate rosse ed inutilizzabili, dovevano essere tagliate dalle piante in modo che le stesse potessero essere rivitalizzate. Confinante con questo campo vi era una base dell’esercito munito di artiglieria pesante e carri armati che durante tutta la giornata ha bombardato il nord della Striscia ed il rumore delle bombe, anche per noi, che non eravamo vicino ai mezzi, era veramente forte ed ogni volta ci sorprendeva e ci faceva sussultare.
I commenti dei partecipanti sono tutti positivi. Roberto mi spiega: ”sono venuto perché il nostro contributo, anche se minimo, è importante, non tanto per il lavoro che svolgiamo, una goccia nel mare, ma per sostenere moralmente le persone che continueranno a vivere in questo posto. Mentre siamo qui sentiamo i rumori della nostra artiglieria e degli aerei che ci sorvolano; fortunatamente non abbiamo sentito le sirene di allarme ma non è facile vivere in questo posto.” Giuseppe, invece, mi dice: “è il minimo che possiamo fare considerando che per ragionevoli motivi di età non possiamo fare di più, dobbiamo aiutare in questo modo, anche perché gli israeliani sono impegnati in guerra, e noi dobbiamo fare il possibile. Siamo qui in una zona difficile a poche centinaia di metri dal confine con Gaza, si sentono spesso i colpi dell’artiglieria israeliana però siamo molto soddisfatti di quello che facciamo. Il popolo d’Israele è un popolo forte a cui noi, nel nostro piccolissimo, diamo una mano.” Tiziana, invece, mi racconta: “in Italia mi sentivo in colpa perché sapevo che in Israele avevano bisogno di aiuto e mi chiedevo che cosa potessi fare per loro. Così ho pensato che andare a raccogliere la frutta nei kibbutzim evacuati il 7 ottobre potesse esse utile. Ora che sono qui capisco che il lavoro svolto è importante, non solo per Israele, ma soprattutto per me perchè, anche se sono tra i boati della nostra artiglieria, mi sento serena e soddisfatta per aver fatto qualcosa di utile.”
Claudia mi dice : “la nostra esperienza di volontariato è stata estremamente positiva perché l’abbiamo condivisa sia con i nostri figli sia con persone israeliane ed italiane ed è stata completata con le visite nei kibbutzim. Abbiamo anche avuto modo di socializzare con alcuni militari che abbiamo trovato a ridosso del kibbutz. Questa esperienza ha sicuramente arricchito la nostra identità ebraica e, nel mio caso, anche quella di israeliana.”