Ho trovato il successo, oggi cerco la verità
Riccardo Joshua Moretti è maestro d’orchestra, compositore, musicista (oltre che presidente della comunità ebraica di Parma). A Riflessi racconta un pò della sua vita
Riccardo, anche questa estate non sei stato fermo. pochi giorni fa hai tenuto uno spettacolo al Balagan Cafè, a Firenze: di che si è trattato?
Il lavoro si chiama “Il Canto delle sapienze”, ed alterna la musica a un testo letterario chassidico. Narra di un musicista che, arrivato al massimo del successo, comincia a comprendere di avere sbagliato strada, perché la sua musica non nasce più dal cuore, ma dall’ansia di successo, e ciò gli produce depressione. Si apre da qui un percorso mistico e cabalistico, ambientato in quelle terre dove la Shoah ha mietuto molte anime, e dovrà confrontarsi tra la sua anima e il senso dell’essere stato un grande compositore. Dopo aver incontrato un grande rabbino, il musicista ritroverà sé stesso.
È un rischio attuale?
Sì. Vedi, tutti noi musicisti siamo chiamati alla necessità di compiacere il pubblico, ciò è naturale, ma spesso ci si può ingannare, perché rischiamo di non capire più se seguiamo la nostra anima o le esigenze del successo.
Per esempio?
Quando si raggiunge il successo, è forte la tentazione di ricalcare sempre lo stesso modello, almeno per la maggior parte degli artisti. Questo vale in vari campi. Io credo però che se non abbiamo la forza di riflettere su noi stessi, ci smarriamo. Allora va compreso che il successo è una fase effimera, e non ci porta alla serenità anzi, spesso, può essere oppressivo, come i Pirkè Avot ammoniscono: il rischio è di avere successo. Perché il successo ha molti tranelli.
Quanto c’è di autobiografico in una storia come questa? In fondo, tu sei un artista che ha avuto successo un po’ dappertutto.
Lo è totalmente! Ho scritto questo lavoro parlando a me stesso, cercando di chiarirmi. Era importante per me essere stato premiato alla Carnegie Hall di New York o a Mosca, al Bolshoj? I premi sono entusiasmanti, ovviamente, ma non risolvono poi il problema di essere completamente se stessi, e capire se sei o meno un vero musicista.
Pensi di avere risolto questo dilemma?
Oggi il mio rapporto con la musica è molto più essenziale. Ho tolto ogni “strizzatina d’occhio” al mercato. Fondamentale è riuscire a togliere tutto il superfluo. Ho imparato, in generale, a essere il più chiaro possibile.
Allora, se vuoi, parliamo un po’ della tua carriera.
Non ricordo neanche più quando ho iniziato. Deve essere stato verso i 3 anni, quando mi sorpresero ad ascoltare la radio, che dava Tosca, mentre piangevo per l’emozione. La signora accanto a mia madre mi disse che mi avrebbe fatto visita quando sarei diventato musicista e così fece, il giorno del mio diploma al conservatorio. Da allora ho vissuto solo di musica. A 21 anni e mezzo insegnavo al conservatorio e sono stato il più giovane insegnante di flauto. Avevo già al mio attivo più di 200 concerti per il mondo.
Quali sono stati i tuoi principali maestri?
Sono stato fortunato, perché ho avuto sempre i migliori insegnanti. Ho iniziato gli studi di flauto e composizione, e il mio primo maestro è stato il grande Severino Gazzelloni. Quando sono passato all’attività di direttore d’orchestra, ho avuto la fortuna di essere allievo di Carlo Maria Giulini, uno dei più grandi maestri del Novecento, con cui ho girato, come suo assistente, il mondo. Infine, quando ho lavorato nel cinema, sono stato al fianco di Nino Rota.
Toglimi una curiosità: che reazioni hanno avuto questi personaggi conoscendo la tua identità ebraica?
Con Gazzelloni ero molto evasivo, non affrontavo la questione, perché ero molto giovane. Lui però si accorse che c’era qualcosa che non andava dalle mie difficoltà…a tavola, perché certi cibi nemmeno li toccavo. Con Giulini, che invece era un uomo spiritualmente integro, un cattolico fervente, ho avuto alcuni confronti sulla sostanza dell’ebraismo, rispetto al suo cattolicesimo. Ricordo che non accettava la posizione degli atei, coloro che negavano l’esistenza di Dio, per cui ho imparato che non conviene mai mettere a confronto la propria fede con chi ne professa un’altra. Con Rota, infine, c’è da dire che lui era più interessato all’aspetto mistico; il maestro, infatti, non solo era un fervente conoscitore degli aspetti alchemici ed esoterici ma essendo anche un alto grado dei rosacrociani massoni, era interessato a una ricerca della propria essenza spirituale.
In generale, il tuo essere ebreo ti ha ostacolato nella tua professione?
C’è il solito problema del venerdì sera. Alla Scala sono stato chiamato la prima volta a dirigere proprio di venerdì sera, e rinunciai. Credo che la coerenza conti, e così poi mi offrirono di dirigere altre volte, ma mai più di venerdì. Ormai le persone non mi offrono più un concerto il venerdì sera. Per il resto non ho mai subito discriminazioni.
Esiste un approccio ebraico alla musica?
Certo! Ne sono assolutamente convinto, non è un caso che gli artisti ebrei eccellono soprattutto nella letteratura e nella musica. Alla base c’è la stessa esigenza di parlare all’animo umano. Ed è per questo che apprezziamo particolarmente un’arte impalpabile, come la musica.
Quali sono i tuoi artisti preferiti?
Da sempre ho una predilezione per Puccini – pensa che da ragazzo mi chiamavano Giacomo. Credo che sia un artista tra i più sensibili, ascoltarlo mi appaga sempre. Per i 150 anni della sua nascita ho interpretato lui stesso in un film in suo onore “Puccini e la fanciulla” con la regia di Paolo Benvenuti. E poi ci sono altri autori a cui mi sento vicino spiritualmente, ossia ai neoclassici o minimalisti (anche se non amo le etichette), che vanno alla ricerca dell’essenzialità, e non del virtuosismo: Joep Beving, Hans Richter, Arvo Part per esempio. Compongono musiche apparentemente semplici, che però t’immettono in un mondo che ha a che fare con la più profonda intimità.
E della musica precedente al Novecento, che giudizio dai?
In estrema sintesi, direi questo: il Barocco segue sempre lo stesso schema (con tutte le possibili varianti); il Romanticismo, che dura storicamente poco, ha in Schubert il più grande melodista, mentre Beethoven ha incarnato l’idea stessa dell’epoca. E poi c’è Wagner: dopo di lui la musica è andata inesorabilmente, verso la musica atonale. Arriviamo così alla musica dodecafonica.
Che giudizio dai di Schonberg?
Come sai, la sostanza della dodecafonia è di utilizzare in sequenza le 12 note. Quello che però non si comprende, è il motivo. Poiché Schonberg è ebreo, io credo che il messaggio sia questo: i 7 tasti bianchi sono i giorni della creazione, alla luce dei 5 libri della Torah, rappresentata dai 5 tasti neri; tutti e 12 formano le tribù di Israele. Insomma, la musica dodecafonica è una risposta al caos del Novecento, cerca di dare ordine. Come è noto, noi ebrei temiamo il caos, cerchiamo di rimediare dove sia possibile.
E della musica contemporanea?
È un errore pensare che il rock non abbia dignità, perché ha saputo comunicare al mondo ciò che la musica intellettualoide non riusciva più a trovare empatia con il pubblico.
Ci vuole lo studio per capire davvero la musica?
Se la musica è l’unica arte che parla direttamente al cuore allora non c’è nulla che impedisca di ricevere tale messaggio. Stravinskij, che pure non scriveva musica facile, diceva: tutto quello che non si può leggere a prima vista non è buona musica. E il mio maestro di composizione, Gaetano Giani Luporini, mi diceva che la musica vera è quella che si può cantare.
Mi parli un po’ dei tuoi lavori?
Ne ho composti a centinaia. Solo per la danza ho creato 6 balletti interi, il primo rappresentato a Siena, “Reshimù”, ossia la piccola luce su cui si fonda il mondo. L’ultimo, con la Compagnia di Balletto di Roma, è “L’albero dei sogni”, un riferimento all’albero del Gan Eden. L’ultima colonna sonora è stata per un documentario su Anita Ekberg: “Io, Anita”, per la quale ho ricevuto molti riconoscimenti dai più importanti Festival del Cinema internazionali.
È difficile fare il direttore d’orchestra?
È molto complesso, pensa che con una bacchetta di 5 euro devi governare decine di professionisti! Durante il mio lavoro con l’Orchestra del Maggio Fiorentino un giorno arrivarono a casa mia tre russi (pensa che allora la mia casa era in un bosco difficile da trovare), che conoscendo la mai collaborazione con Nino Rota, mi chiesero di partecipare a un Festival in suo onore, visto che avevo le partiture originali dei suoi lavori. Andai a Mosca… e ci sono rimasto 7 anni, dal 1992 al 1999. Con il Bolscioj ho inciso molti CD da Ciaikovskj, Brahms, Liszt a Borodin e soprattutto Stravinskij “La storia del soldato “con la voce recitante di Giancarlo Giannini. Alla fine ho chiuso l’esperienza perché mi sono accorto che la Russia stava cambiando, e non capivo che direzione stava prendendo, anche se ricorderò sempre quegli artisti straordinari.
Non abbiamo detto nulla finora della tua famiglia: me ne parli?
Mia madre proviene da Marsiglia mentre mio padre dalla Toscana. Nel ‘43 emigrò in Francia e nel ‘44 tornato in Italia finì la guerra da partigiano.
Infine, posso chiederti dei tuoi prossimi progetti?
A breve realizzerò un nuovo CD con musiche spiritualmente ebraiche, che nascono dal desiderio di ritrovare quell’ essenzialità di cui abbiamo parlato. Come ti dicevo all’inizio, è molto importante andare all’essenza perché “Tutto quello che nasce dal cuore arriva al cuore”. E spero che, oltre a me, il mondo ebraico impari a riconoscere e valorizzare i talenti al proprio interno.
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