Faccio la statistica per tutelare i diritti dei più deboli
Linda Laura Sabbadini, direttrice dell’Istat, racconta a Riflessi il suo impegno per lo studio delle fasce di popolazione più disagiate. E indica le priorità del nostro paese per il dopo Covid
Dottoressa Sabbadini, che effetti ha avuto la pandemia sulle fasce più svantaggiate della nostra popolazione?
Innanzitutto ne hanno sofferto le donne. A differenza del passato, la crisi del dopo Covid ha colpito le donne nel lavoro più degli uomini. Se in precedenza – durante le crisi degli anni Novanta, o in quelle del 2009 e del 2013 –, la crisi ha riguardato settori a maggiore occupazione maschile (l’industria, le costruzioni), adesso invece ha colpito il settore dei servizi, in particolare quelli in cui le donne sono più presenti: turismo, servizi alle famiglie, commercio. Se poi confrontiamo questo dato con l’altro, per cui le donne sono più impegnate in lavori precarie e irregolari, si capisce perché siano state colpite di più. Anche gli aiuti ricevuti dallo Stato, come la Cassa integrazione, hanno coperto meglio i settori maschili, e meno quei soggetti più irregolari e precari. Quel che è peggio, però, è che la crisi ha colpito una società già molto sofferente.
Ce la può descrivere?
La crisi si è innestata su un dato già critico: il 50% delle donne era già escluso dal mondo del lavoro. Le do due dati: eravamo penultimi come classifica delle donne al lavoro, e addirittura ultimi nella classe d’età tra i 25 e i 34 anni, che ricordo è la fascia di giovani che hanno più investito in formazione. Ora, è successo che quando è arrivato il Covid, e durante il lockdown è stato introdotto lo smart working, utilizzato molto più dalle donne che dagli uomini, questo ha fatto sì, assieme alla DAD, che sulle donne si sia riversato un enorme sovraccarico di cura. E così, molte di loro sono uscite dal mondo del lavoro, perché si sono trovate con molti più impegni in casa; oppure abbiano vissuto un forte sovraccarico di lavoro, retribuito e non. Le più colpite sono state le donne con basso titolo di studio e le straniere, che fanno lavori domestici e irregolari. Insomma la crisi ha colpito chi stava già in fondo alla scala sociale.
Chi altro sta soffrendo la crisi?
I giovani, i bambini. Il problema è più serio per loro, perché già nel 2012 c’era stato un incremento della povertà, con la povertà assoluta raddoppiata in media, ma triplicata per i bambini e i giovani fino a 34 anni, più stabile invece per gli anziani.
Cos’era successo?
Se subito dopo la crisi del 2009 la cassa integrazione ha sostenuto i capi famiglia e le famiglie avevano fronteggiato l’emergenza, spesso indebitandosi o intaccando i risparmi, per sostenere i propri figli che avevano perso il lavoro, nel 2012 questo argine di difesa si è esaurito, e molte famiglie sono scese sotto la soglia di povertà. Da quel momento la situazione di povertà non è mai migliorata, fino al 2019, quando è stato introdotto il reddito di cittadinanza, che però è partito solo da metà anno; quindi non poteva avere grandi effetti. Poi, col 2020, è arrivato il Covid. E i poveri sono cresciuti di un milione.
Vista questa situazione, quali politiche sociali e del lavoro si dovrebbero realizzare per sostenere i più deboli?
Per le donne, la questione della bassa occupazione sta diventando strutturale, questo perché non si è mai messo mano a un vero piano di infrastrutture sociali. Servirebbero anzitutto i servizi educativi per la prima infanzia, basta pensare che nel nostro paese solo il 26% dei bambini va al nido, e la metà di questi nelle strutture private. Se si riflette che questa è la media nazionale, si capisce che in realtà il divario tra nord e sud è molto ampio. Eppure la legge sui nidi pubblici è del 1971: dopo 50 anni ancora siamo a questo punto.
Come mai?
Perché costruire asili nido non è vissuto come un investimento, ma come un costo. Non capendo che così si tagliano i diritti dei bambini svantaggiati: è dimostrato infatti che frequentare il nido dà migliori risultati in tutto il percorso scolastico.
Un’altra priorità?
Occorre ridurre il digital divide, che ha escluso una parte importante dei bambini dalla Dad.
Che altro?
C’è il problema degli anziani e dei disabili: l’assistenza per loro manca sul territorio, e tutto il carico è sulle spalle delle donne. Servono le infrastrutture al loro sevizio che mettano al centro la persona.
Perché è importante creare infrastrutture e servizi?
Primo perché si riducono le disuguaglianze tra bambini, tra anziani e tra disabili. Secondo perché la loro presenza libererebbe le donne che potrebbero cercarsi un lavoro, terzo darebbe loro maggiori opportunità di essere impiegate proprio in quelle infrastrutture, e quarto farebbe entrare un altro reddito nelle famiglie diminuendo la povertà. Insomma, queste infrastrutture hanno un effetto moltiplicatore. Senza questi interventi, le donne invece continueranno a rinunciare al lavoro e alla carriera.
Eppure, sembra che ora le opportunità ci siano: il PNRR prevede interventi adeguati contro il disagio sociale?
I progetti ci sono, ma sono insufficienti. L’associazionismo femminile ha fatto una battaglia, chiedevamo di arrivare a offrire un posto al nido per almeno il 60% dei bambini, anche il comitato Colao si era espresso in questo senso. Ma il piano si è fermato al 33% in 5 anni, per un investimento pari a 3,5 miliardi. In generale, il PNRR ha fissato come priorità la transizione ecologica e quella digitale. L’Europa avrebbe potuto darci delle indicazioni più stingenti a favore della parità di genere. E invece non l’ha fatto. La parità di genere non riesce a diventare reale priorità per questo Paese.
Lei occupa un posto di tutto prestigio nella società – è editorialista di due tra i più importanti quotidiani nazionali – e professionale, come direttrice dell’Istat. Quanto è reale, dal suo punto di osservazione, la possibilità per le donne di fare carriera e esercitare ruoli di responsabilità nel nostro paese?
Una risposta
Una grande Donna. Proviene anche da una famiglia ebraica eccezionale. Kazah!