Esther tra ambiguità, tragedia ed euforia

Soprattutto in tempi come quelli attuali, la Meghillà e il suo finale ci interrogano e ci invitano a evitare facili interpretazioni

Purim, nell’interpretazione di Luzzati

Presentando un recente libro dedicato alle interpretazioni della meghillat Esther (in quanto “libro” del Tanakh, non in quanto “rotolo” a uso liturgico per celebrare la festa di Purim), ho definito la storia che vi è narrata con questi tre aggettivi: prima ambigua, poi tragica e infine euforica. In questo preciso ordine. Prima ambigua, perché l’iniziale contesto (il banchetto del re Achashverosh in cui scorre abbondante vino) è un consesso di potenti senza remore morali, e l’interpretazione rabbinica della figura di Washtì sintetizza questa ambiguità; ma anche Hadassa/Esther è figura ambivalente proprio nel suo starsene assimiliata cioè “nascosta”, mentre il primo segnale di ebraicità è dato da Mordechai che si rifiuta di inchinarsi e prostrarsi dinanzi ad Haman. Poi tragica, per le trame del perfido ed empio Haman che pianifica lo sterminio degli ebrei di Persia e convince il re che questo è per il bene del suo Stato (primo esempio di antisemitismo politico, diverso nelle motivazioni dalle politiche demografiche di Faraone in Egitto al tempo di Mosè). Infine euforica, quando le sorti si capovolgono e gli ebrei festeggiano con grande esultanza, e a loro volta con molto vino, la salvazione dal decreto di sterminio e “appendono” Haman al posto che questi aveva destinato all’ebreo Mordechai. Middà ke-neghed middà, misura per misura, o per dirla con Hillel (Avot II,6): «Poiché annegasti [altri], fosti annegato [a tua volta]».

Nel commento ebraico americano al Tanakh, noto come The Jewish Study Bible (Oxford University Press), la studiosa Adele Berlin afferma che questo libro andrebbe letto «come una commedia» e che «i midrashim sembrano aver intuito questo là dove aggiungono, a scopo di divertimento [fun], alcuni abbellimenti alla storia e ai suoi protagonisti, esplicitando in modo grossolano gli aspetti farseschi o burleschi intrinseci al libro, con umorismo malizioso teso alla comicità», quasi la storia fosse destinata a un voyeur collettivo. Questo giudizio trova modo di risolvere, forse dovrei dire dissolvere, anche la conclusione della storia, quella che nel capitolo 9 vede compiersi il capovolgimento delle sorti, con l’uccisione di 75mila nemici, e poi ancora 300 (solo a Susa) e poi ancora 500, e Haman e i suoi dieci figli… sì che gli ebrei di Susa potessero le-hinnaqam dei loro nemici (pur «senza stendere la mano sul bottino»). Cosa significa quel verbo ebraico: fare giustizia o vendicarsi? La radice nun-qof-mem è abbastanza chiara: indica vendetta e rivincita. Middà ke-neghed middà. Capovolgimento della situazione. La conclusione del libro sembra non fare alcuna differenza tra giustizia e vendetta. Ma ai lettori moderni tale conclusione fa problema. Perché noi moderni distinguiamo, vogliamo e dobbiamo distinguere tra giustizia e vendetta. E già questa annotazione rende “dolceamara” (lo ha detto un importante rav italiano) tutta la storia. Ma come se ne esce? Adele Berlin, sopra citata, liquida tutto in chiave di “carnivalesque” suggerendo che «tanta violenza finale non va presa seriamente; è un’orgia fictional, non un massacro reale» evocando il timore (ebraico) che essa possa offendere i gentili (i goyim, i non ebrei); anzi che si tratti di qualcosa di “sproporzionato” [out of proportion] rispetto alla minaccia anti-ebraica che era stata neutralizzata. Ecco, questa preoccupazione ci porta ex abrupto nell’attualità, in Israele oggi, a Gaza, a Jenin. Ciò introduce due domande complesse e dirimenti: cosa è “violenza proporzionata” in un contesto di guerra e di politica militare? E quale ruolo gioca questo concetto, la “proporzionalità”, a livello giuridico e non solo morale, nella differenza tra vendetta e giustizia? Possiamo semplicente dire che la giustizia è una vendetta proporzionata, mentre la vendetta è una giustizia sproporzionata? Ma chi stabilisce, appunto, il limite della s-proporzione: la legge, ma dettata da quale autorità? Oppure la moralità, ma fissata da chi e su quali basi? L’approccio di Berlin liquida la questione, non la affronta. La fine della storia di Esther ci lascia inquieti. Il filosofo, rabbino tedesco-israeliano e sopravvissuto alla Shoah Emil Fackenheim ha scritto che, dopo Auschwitz, non se la sentiva più di accettare la conclusione della meghillà, perché gli stava bene che Haman fosse stato “appeso”, ma la condanna dei suoi dieci figli no, perché nessun figlio deve o dovrebbe pagare, se innocente, a motivo delle colpe del padre, anche del padre più criminale.

Ester e Mordechay in un dipinto del XVIII secolo

Un altro sopravvissuto, Elie Wiesel, ha una reazione non troppo dissimile. Scrive: «Personalmente non ho mai capito questo epilogo. Dopotutto la catastrofe non ha avuto luogo, neppure un ebreo è stato ucciso; allora perché questo spargimento di sangue persiano? (…) È vero, c’erano stati combattimenti e gli ebrei dovevano difendersi contro nemici fanatici e pieni di odio». Ricordo che Wiesel è morto nel 2016, e quindi non si sta parlando di Gaza! Lo scrittore e Premio Nobel continua nel suo commento a Esther: «Ma il testo parla di vendetta, e questo mi sfugge. Qual è il rapporto tra carneficina e miracolo? Come possiamo festeggiare la sopravvivenza dei nostri in mezzo a tanti morti? È questa la ragione per cui dobbiamo bere fino a essere ubriachi? Perché è più facile dimenticare? Per cancellare il confine tra l’immaginario e il vissuto, e pensare che era solo un incubo? Per superare la nostra frustrazione? Un giorno all’anno, il giorno di Purim, ci è permesso di celebrare azioni di una violenza inaudita per ricordarci che è proibito in tutti gli altri giorni dell’anno?». Aggiungiamo poi che il silenzio divino, di un Qadosh barukh Hu mai nominato nella meghillà, aggrava persino la (nostra) situazione… O forse è proprio questa la chiave, la soluzione ai nostri dilemmi? Se Wiesel non aveve scritto quel che ho sopra riportato, chi avrebbe avuto la chutzpà di porre tali domande?

Elie Wiesel (1928-2016)

Io penso che la (narrazione della) distruzione di Haman e dei nemici resta essenziale alla conclusione della storia di Esther, anche se tocca a ogni generazione decifrarne il significato. Vi è un male che non può essere riassorbito nel bene, perché incapace di trasformarsi, di fare teshuvà. E c’è un buio che non vuole la luce, e davanti al quale la luce resta impotente e, pertanto, inutile. Lo dice Emmanuel Levinas, non io. Ma trovo che l’ultima parola della meghillat Esther non stia nella meghillà stessa, quanto piuttosto nel Talmud (Gittin 57b; Sanhedrin 69b; dunque è detto in due luoghi diversi) là dove leggiamo che, secondo i maestri di Israele, «alcuni discendenti di Haman studiarono Torà a Benè Braq». Sorprendente! Credo questa sia la miglior vendetta, la vera e più radicale rivincita del giudaismo contro i suoi nemici. O, come dice ancora Levinas: è la giustizia al di là della giustizia. Chag Purim sameach.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Condividi:

L'ultimo numero di Riflessi

In primo piano

Iscriviti alla newsletter