una della pubblicazioni di Daniela Abramavel

Dopo alcuni anni di teshuvah e di vita ortodossa in Israele, cominciai a maturare dentro di me il desiderio di vivere l’esperienza dei kibbutzim da vicino. Mario Levi mi parlava spesso del fatto che non esiste solo Eretz Israel, ma Adamat Israel, la terra sacra di Israele, da coltivare per far crescere insieme alla nostra fede, come insegnavano i Salmi e soprattutto Rav Kook. Per sentirmi veramente parte del popolo e della terra di Israele che appartiene, come ogni terra, a chi la coltiva e non solo a chi ne studia la storia e la religione.  Si proponeva un sionismo difficile,  ma si restituiva agli ebrei il senso vero dell’ebraismo, la creazione di un mondo in cui Hatevah (la Natura, il femminile divino) e il Dio Trascendente venivano unificati in un lavoro coscientemente alchemico della terra. Proponendo un superamento dell’isolamento capitalistico, sia dalla terra che dagli uomini che da Dio, attraverso la pratica di un potente idealismo comunitario.  Far fiorire il deserto era la meta dei profeti biblici, ma anche di Ben Gurion, insieme al bisogno di creare quel regno di giustizia e cooperazione immaginato dai suoi profeti, che, se oggi potessero comunicare con i nostri governanti gli avrebbero spiegato che per arrivare a costruire il Regno di Israele non basta costruire un altro Tempio o cambiare la capitale di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme ché bisogna non solo togliere gli ebrei dall’Egitto, ma l’Egitto dal cuore degli ebrei. I profeti non hanno parlato, o non sono stati ascoltati. Notizie di vari grandi rabbini messi al bando e fatti sparire perché criticavano non solo il governo ma le stesse organizzazioni religiose corrotte dal traffico del kosher o dal trattamento di seconda classe delle donne sono note solo negli ambiti religiosi autoconsapevoli e autocritici (che sono ben pochi nel mezzo di un diffuso narcisismo di gruppo tanto temuto da Fromm). Così nell’ultimo mezzo secolo i kibbutzim sono divenuti necessari-diseconomici-obsoleti per un governo che ha preferito un capitalismo high-tech.

Come è continuata la tua esperienza nel kibbutz?

donne in Kibbutz nel 1937

Dopo aver appreso i rudimenti dell’agricoltura mi sono cimentata a Migdal per vari anni a coltivare la terra. La gioia dei miei figli e mia nel mangiare per la prima volta l’uva coltivata e piantata con le nostre mani e tra le nostre preghiere, così come fichi,  olive, datteri, arance, mi fece comprendere perché la parola scelta dai maestri per descrivere il Paradiso è pardes che in ebraico significa ‘campo di alberi da frutto’! Israel yaziz uparach sta scritto. Israele fiorirà e fruttificherà. Stavo realizzando il sogno mai completato dei miei antenati. Con gli anni sempre più mi identifico con le parole dei  Maestri: chi non possiede un campo da coltivare non è un vero uomo Credo che le varie pandemie e crisi socio sanitarie stanno portando le persone più sagge a capire quanto sia vero tale insegnamento. Senza l’ebraismo non avrei potuto imparare a amare la natura e la terra come espressione del divino. Così a poco a poco mi sono avvicinata al lavoro della Terra Sacra, al quale sono dedicati il più gran numero dei tomi del Talmùd. Peccato che oggi molti rabbini non sappiano distinguere un seme di coriandolo da uno di carota! D’altra parte comprendo anche il perché della difficoltà a riportare gli ebrei ai valori autentici dell’ebraismo.  Generazioni di esili e persecuzioni, l’impossibilità di possedere della terra in paesi cattolici, hanno fatto sì che gli ebrei mettessero le loro speranze nel commercio, nelle finanze.

un’immagine di Tel Aviv, oggi

Non nella conoscenza della Torah o la pratica della giustizia e della carità, che sono comunque  garanzia di prosperità. Invece purtroppo oggi i capitalisti moderni oggi giocano a Monopoly e ‘comprano tutto’ (grazie alla crisi politico-sanitaria), ma non hanno nessuna intenzione di condividere la loro ricchezza né con i popoli ai quali hanno rubato le risorse naturali, né con varie le specie in estinzione, né con i più poveri che stanno per tornare ad essere schiavi dopo alcuni millenni di liberta. Come aveva predetto il grande cabalista Tidhar Elon: alla fine dei tempi i grandi faraoni di tutte le nazioni si uniranno e cercheranno di ricreare uno stato di semi-schiavitù per i sudditi globali.

Hai parlato di perdita di identità. Quando e come avviene secondo te il recupero di questa identità in cui mi immagino la parte ebraica è forte e vorrei dire dominante?

La città vecchia di Tripoli

Be’, dobbiamo fare un passo indietro. Gli ebrei libici sono come un’appendice degli ebrei italiani. La prima volta che gli Italiani di confessione ebraica sono, come dire?, déboussolés è con l’adozione delle leggi razziste. E quello è il primo momento di perdita di identità perché gli ebrei erano all’epoca (o si percepivano almeno) solo come Italiani tout-court. Gli ebrei sono nel 1938 di fronte ad una delusione terribile, cocente. Penso a mia mamma, in Libia, che all’improvviso, da scolara modello e diligente, è espulsa dalla scuola. Di colpo la mamma non ha più amici, amiche, compagne e compagni di scuola. Ora la mamma è solo “ebrea”.  Ed è sola. Tutti gli ebrei sono soli, privi di aiuto, di qualsiasi sostegno. Ebreo è una parola che suona come una condanna, un marchio di  infamia.  L’ebraicità è un crimine e una vergogna. Per questo mia mamma mi consigliava: se non ti chiedono di che religione sei, meglio sorvolare. Insomma da bambina odoravo ‘the dead rat’, avevo sentore di qualcosa di profondamente incongruente in molti degli atteggiamenti della famiglia di mia mamma (la sorella di mio papà, ricorrendo a suo fortissimo senso dell’umorismo, chiamava l’adorato -ma assimilatissimo marito- ‘il mio goy’!).  Negli ultimi anni mi sono chiesta come potessero, dopo aver scoperto alla fine della guerra, dei campi di concentramento di Giado, sentirsi ancora presi dalla cultura italiana. Ma se guardo al tutto da psicologa, abituata a cercare le dinamiche del profondo, esiste solo una risposta che la psicoanalisi definirebbe  discrepanza cognitiva.

Come ti poni tu di fronte a tale discrepanza cognitiva?

Ho cercato di fare ciò che i miei avi avrebbero voluto fare, se solo avessero potuto. Non solo vivendo in Israele da ebrea osservante per più di 25 anni, dedicandomi al lavoro della terra,  conoscendo Israele in lungo e in largo, con ogni suo fiume, cascata, montagna. Cum Italeh ba aretz fu la prima cosa che Dio disse a Abramo. L’ho fatto.  Ho conosciuto Israele sia nelle pagine dei libri che in intense immersioni nei luoghi in cui avevano vissuto le tribù, gli esseni, i cabalisti. Ispirata dal loro modello. Soprattutto facendo una selezione dei suoi maestri. Credo di essere riuscita a studiare con i suoi maggiori rabbini e cabalisti.

Mi parli dei tuoi Maestri?

(continua a pag. 3)

2 risposte

  1. Intervista molto interessante!
    Concordo appieno su quanto sosteneva il Rambam, cioè che per aiutare una persona sia fondamentale elevare il suo stato psicologico attraverso musica, oli essenziali ed altri rimedi che aiutino a “riallineare” il corpo e lo spirito. E concordo anche con Daniela riguardo all’importanza dell’alimentazione e dell’esercizio fisico in parallelo al Tikun haMidot, alla Tefillah, alla Tzedaqah ed alle Mitzvot per integrare corpo ed anima, così come il versetto di Shemot 24,7 (“Naassè veNishmà”) ci insegna…

  2. Molti spunti interessanti nell’intervista anche diversi da quelli che sto sentendo in queste sere nell’evento con molte testimonianze di ebrei libici organizzato a Roma da David Gerbi

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