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Dietro le quinte

Angelica Calò ci accompagna nel Kibbutz di Sasa, per spiegarci cosa è successo durante la visita della stampa italiana

qui e sotto: il Kibbutz Sasa, al confine col Libano

Il corrispondente estero de La Repubblica giunge a Sasa, il kibbutz degli italiani, come ormai è conosciuto nei media, che sorge sul confine del Libano ed è evacuato da ormai otto mesi.  Vi sono rimaste solo 30 persone 6 delle quali sono cittadini italiani.

Ci chiede se può venire ad intervistarci nonostante la pioggia incessante di missili e ci dice che verrà con un’amica. Noi acconsentiamo subito felicissimi, siamo famosi per la nostra ospitalità anche in tempo di guerra dove si può gustare nella sala comune un pranzo delizioso opera dello chef italiano Cesare Funaro e del suo staff composto da molti arabi dei villaggi circostanti che sono, ormai da anni, parte dello scenario del nostro kibbutz.

Quando Fabio arriva presenta la sua amica. Cesare offre subito, gentilmente, da bere e da quel momento inizia una serie di “attacchi” senza posa da parte dell’amica che dichiara di essere palestinese, che controbatte tutto ciò che si cerca di raccontare al giornalista che comincia a spazientirsi.  Cesare presenta con orgoglio il suo staff: la responsabile del settore carne dal villaggio Gush Halav, la responsabile della pasticceria di Fassouta, quello dei pasti vegetariani, tutti sorridono affabilmente ma l’amica è inviperita e a voce alta attacca Cesare: “Ma lo sai cosa pensano questi di te? Di voi? Ci avete mai parlato?” Cesare risponde che c’è tra loro un ottimo rapporto di rispetto reciproco per il lavoro che si svolge correttamente e professionalmente. Che si preoccupa di mandarli periodicamente a corsi di aggiornamento, che dà la possibilità di rispettare gli eventi e le feste cristiane, musulmane e druse. Ma l’amica non è contenta, si rifiuta in malo modo di assaggiare una torta preparata per la Festa delle Pentecoste ebraica che cade fra qualche giorno e quando Cesare dà le direttive per la preparazione del pranzo comincia a gridare: “Vi sta’ sfruttando, vi tratta da cagnolini, svegliatevi!!!!!!”.

Angelica con suo marito Yehuda

E qui interviene Yehuda che con la sua calma proverbiale spiega all’amica che ormai cavalca l’onda del pregiudizio e si erge a paladina della giustizia, che è compito di uno chef dare direttive e che lei sta sfondando non una porta ma un portone spalancato perché Sasa è un kibbutz di gente che da sempre lotta per l’uguaglianza tra le culture d’Israele, da sempre accoglie il diverso e da mesi scende in piazza per difendere la democrazia.  Ma l’amica non è interessata perché questo significa “normalizzazione” ed è la fine della “resistenza” palestinese perché se ci sarà la pace, se si troverà il modo di convivere civilmente in armonia non ci sarà più motivo di scacciare gli ebrei dal fiume al mare. Non ci sarà più motivo di inventare storie sul genocidio perpetrato da Israele, sulla violenza di questo Stato e su tutti i motivi per cui deve essere cancellato dalla faccia della terra. Forse proprio per questo una delle prime vittime del 7 ottobre è stata Vivian Silver, cittadina del Kibbutz Beerì, che aveva fondato il movimento “Donne della pace” e che conduceva ogni giorno malati da Gaza agli ospedali di Israele. Scomodissima, uno degli impedimenti per denigrare Israele, forse proprio uno di quei malati l’ha massacrata. Un ingrato come Sinwar, condannato per l’omicidio di palestinesi sospettati di collaborare con Israele, e condannato a cinque ergastoli che durante la sua permanenza nelle prigioni è stato salvato con un intervento chirurgico per rimuovere un tumore al cervello ma non ha esitato a programmare una strage che segnerà per sempre il mondo, anche chi insiste a non credere che sia avvenuta.

dai giorni successivi al 7 ottobre Hezbollah ha intensificato i suoi attacchi al nord di Israele

 

Il giornalista non riesce a intervistare gli italiani per le continue pungolature dell’amica e l’allontana. Lei non si dà per vinta, va dai membri dello staff e continua ad aizzarli parlando in arabo. Ma Muhamed, Amira e Maria non si fanno influenzare, continuano a lavorare alacremente perché hanno una famiglia, hanno un lavoro sicuro e sentono il rispetto che viene loro dato da tutti noi. Perché vivere insieme si può, si deve, anche se non tutto è perfetto come vorremmo, perché la Storia è fatta di guerre, di conquiste, di dolori, di esili e di ritorni ma solo chi sa mettere da parte l’odio e il rancore può ricostruire la vita. Solo chi cerca disperatamente in sé la positività e le forze che lo aiuteranno a ricreare tutto ciò che è stato soppresso, annientato e distrutto – come sono riusciti a fare Victor Frankl, Edith Bruck o Liliana Segre  – solo chi come loro si rialzerà da tutte le ceneri, riuscirà a sopravvivere e persino a diventare un esempio per il mondo!

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