Coraggio e capacità di scelta, ecco le priorità dell’ebraismo italiano
Sergio Della Pergola è da anni uno degli osservatori più attenti del mondo ebraico italiano. A Riflessi spiega cosa fare per evitare il declino di una comunità millenaria
Gentile professore, il suo studio sull’ebraismo italiano è ancora oggi preso ad esempio, anche se non tutti ne conoscono davvero i contenuti. Può ricordare le conclusioni cui giungeste allora?
Da quel lavoro (pubblicato dal benemerito editore Carucci) è passato più di mezzo secolo, si tratta infatti di uno studio del 1965, vale a dire un’altra epoca storica. Fu svolto in collaborazione con Franco Eitan Sabatello, zichrono livracha, di Roma, e da me, che provenivo da Milano, sotto la direzione autorevole di Roberto Bachi, mio maestro poi nel dottorato, con cui proseguii la ricerca. Lo studio venne realizzato a soli 20 anni dalla Shoah, 2 anni prima della guerra dei 6 giorni, dunque alla vigilia di una variante imprevista e decisiva. Inoltre, nel 1965 non c’era stato ancora l’influsso degli ebrei libici, che poi ha rivitalizzato la vita ebraica romana, mentre era arrivata la popolazione di ebrei dall’Egitto e dalla Siria, in seguito alla guerra del 1956 sul canale di Suez.
Qual era la situazione dell’ebraismo italiano?
Gli effetti della guerra e della Shoah incidevano soprattutto sulla comunità romana, che aveva sofferto più di tutte le altre. Era un ebraismo non molto istruito e non molto religioso. Tuttavia c’erano già dei segni di cambiamento. L’Italia stava ancora dentro il “miracolo economico”, che favoriva anche il progresso degli ebrei italiani. In definitiva, erano evidenti i risultati degli anni precedenti, con uno stato di bisogno in alcuni strati della popolazione, più povera di oggi, e si vedevano anche i sintomi dell’assimilazione, con la percentuale in aumento dei matrimoni misti, e la natalità in discesa dopo il piccolo boom demografico del dopo guerra. In questo, va detto che gli ebrei italiani hanno anticipato i flussi demografici e professionali poi manifestati in tutto il paese.
Che tendenze emergevano?
Indicammo dei fatti positivi, che riguardavano la comunità di Roma, mentre il trend demografico non appariva positivo nelle altre comunità, piccole e medie (diversa invece era Milano, che come detto già beneficiava di fenomeni immigratori dall’estero), segnate dall’invecchiamento e dall’indebolimento. La conclusione era che nel lungo periodo l’ebraismo italiano si sarebbe concentrato a Roma e Milano, mentre nel resto del paese non sarebbe stato capace di mantenere i servizi, come le scuole. Come si vede non era una conclusione del tutto pessimista, mentre a volte lo studio è stato un po’ travisato, come chi ha voluto leggervi la fine dell’ebraismo italiano.
Veniamo all’oggi. Da che dinamiche è stato interessato in questi anni l’ebraismo italiano?
Oggi l’ebraismo italiano è molto più forte che nel 1965. Ad esempio le capacità di studio, di approfondimento e di analisi sono aumentate enormemente, grazie all’aumento del tasso di istruzione. Anche l’avvicinamento alle miztvoth e alla kasherut è oggi più forte rispetto a quegli anni. Questo in particolare è stato l’effetto dei nuovi arrivi. Gli ebrei della Libia hanno importato uno stile di vita più tradizionale. Inoltre, anche grazie ai mezzi di comunicazione e alle nuove tecnologie, oggi è possibile l’approfondimento dell’offerta culturale. Insomma, per chi è interessato oggi è più facile conoscere e seguire un modello di vita ebraica.
Oggi dunque ci sono solo note positive?
No. Sono ad esempio continuati i percorsi di invecchiamento e di contrazione della popolazione. Feci a quel tempo delle previsioni che si sono dimostrate abbastanza esatte. E cioè: la comunità di Roma ha la forza per mantenersi, ma già quella di Milano stenta. Quando io ero studente alla scuola ebraica, a Milano c’erano circa 1000 studenti, oggi sono circa 300. È cioè avvenuto quello che si poteva prevedere: il forte calo demografico dell’ebraismo italiano. C’è poi un’altra questione.
Quale?
Sono meno convinto della capacità degli ebrei italiani di oggi di inserirsi nelle élites culturali, professionali e istituzionali del paese. Se penso solo a pochi nomi – Primo Levi, Bruno Zevi, e Rita Levi Montalcini – mi sembra evidente che oggi mancano persone di questo livello, figure che provenivano da un ambiente ebraico illuminato e modernizzato, anche se forse poco vicino alla tradizione religiosa. Appartenevano alla fase ascendente degli ebrei italiani di fine Ottocento e del primo Novecento.
Perché mancano tali figure?
Innanzitutto perché la Shoah ha letteralmente distrutto l’ebraismo italiano. La Shoah non è stata un incidente di percorso, da essa alcune comunità non si sono mai più riprese, per la morte dei suoi iscritti, per l’immigrazione in Israele, negli Usa, in America latina, in Europa. Cui va aggiunta anche la conversione di molti, certo legata alla persecuzione. Venendo a oggi, è difficile indicare grandi personaggi ebrei della cultura nazionale; l’ebraismo italiano mi sembra più compatto, per così dire, e consapevole di sé, ma meno proiettato all’esterno.
Torniamo al problema del calo demografico: è inarrestabile?
La denatalità è un problema italiano ed europeo, e le politiche per contrastarlo non sono molto efficaci. Ciò detto, Francia e Svezia sono riusciti ad aumentare i tassi di natalità, sia pure ai livelli minimi.
Come si può intervenire?
Investendo enormemente sulle famiglie, agevolando chi desidera avere i figli. Occorre intervenire nella dinamica difficile tra volere e potere. A livello generale, c’è chi vuole ma non può per motivi essenzialmente economici, ma anche chi può ma non vuole per una valutazione di tipo psicologico o identitario. Per quanto riguarda le comunità ebraiche italiane, occorre ridurre drasticamente i costi dell’educazione, tagliare fin quasi a zero le spese. La gente ha voglia di scuola ebraica, ma spesso non può permettersela. La questione dei costi va dunque studiata attentamente. Resta il fatto che oggi in Italia il problema della crescita dei figli, e in particolare dei figli ebrei, è proibitivo. Se cala il costo, la natalità può salire.
Dunque, che futuro hanno davanti a sé le comunità ebraiche italiane?
Dobbiamo chiederci innanzitutto cos’è una comunità. In Italia c’è un sistema raro, la comunità legale centralizzata riconosciuta dallo Stato. Un tale modello non esiste in quasi nessun altro paese. Ma la comunità non è solo un soggetto giuridico, è ancor di più un corpo sociale vivo, che dovrebbe avere almeno 2 scuole, dei ristoranti, molte sinagoghe, dei centri sociali; dovrebbe avere persino una competizione intellettuale, naturalmente in un quadro in cui ci si riconosce come ebrei. L’eroica presenza di alcune centinaia di ebrei in alcune realtà territoriali è fatta da numeri che però non permettono di progettare il futuro. Oggi Roma ha la possibilità di essere comunità viva, Milano fa difficoltà.
Come si può intervenire in questa realtà?
Occorre imparare a fare rete, superare divisioni geografiche anacronistiche, che fanno riferimento a una realtà addirittura preunitaria, quando c’erano ad esempio i Ducati, come a Parma, Modena, Ferrara, o l’antagonismo fra Pisa e Livorno. C’è necessità di unificare i servizi, occorre promuovere un’idea di comunità regionale, più moderna. Occorre infine collegarsi alle realtà europea. Con pochi numeri, non si riuscirà a fare cose attraenti e forti.
In questo contesto, è reale il rischio assimilazione?
In una situazione nella quale si è una piccola minoranza l’assimilazione è un rischio costante, direi fisiologico, più per contatto sociale che per scelta. Se la comunità non è estremamente concentrata e separata, come avviene ad esempio in Messico, il rischio c’è. A ciò però si deve aggiungere un segnale opposto. Un recente studio, di cui sono coautore, che verrà presto pubblicato a Londra dal Jewish Policy Research Institute, evidenzia come l’antisemitismo, o comunque un’atmosfera ostile agli ebrei, ha l’effetto di riportare a casa persone che erano molto periferiche, che non si sentivano più appartenere alla comunità, perché è la società che adesso li identifica in modo ostile. Ostilità che viene da destra, da sinistra, ma anche da aree cattoliche o perfino liberali. In tutta Europa c’è un “ritorno al focolare”; in altre parole, le circostanze ostili ci danno una carta in più, che era imprevista: la maggiore disponibilità delle persone a tornare a casa.
2 risposte
È presuntuoso dirlo, ma analisi interessante e pienamente condivisibile. Quando si parla di rete bisogna pensare anche a quella internazionale
Ma l’attuale establishment dell’UCEI, non ha forse qualche responsabilità in tutto ciò? La totale indifferenza, per non dire riluttanza, ad accettare il “ritorno al focolare”, menzionato da Della Pergola, degli ebrei del Sud Italia, ad esempio? La mancanza vera di una politica e di una dinamica gestionale unitaria? L’ignobile mancanza di riconoscimento dei figli delle coppie miste? Beh, io rammento, perché c’ero, che un giorno al Tempio Grande, Rav Toaff disse a chiare lettere:-“Nuove tribu’ busseranno alla porta delle Sinagoghe…”. Ebbene, ciò venne detto 50 anni dopo che la famiglia Trito si presentasse alla Bet Knesset di Bruxelles per rivendicare la propria identità di ebrei Siciliani. Oppure che dire dei pescatori del Trapanese (tutti cattolici) che vennero invitati a emigrare in Israele precostituite una primaflotta pescheteccia? Adesso, i loro nipoti e pronipoti sono tutti ebrei, anche molti di essi non fanno più i pescatori, tutti hanno servito Israele con fedeltà assoluta…Ecco di cosa ci sarebbe bisogno oggi, di una visione proiettata al futuro, scevra di inutili orpelli e sganciata da ragionamenti utilitaristici fini a se stessi. Israele e l’Ebraismo hanno bisogno di cuorei, menti ed animi aperti….