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Armando Aron Tagliacozzo (1939-2021)

La prima volta che ho conosciuto Armando eravamo seduti uno di fronte all’altro nella sua splendida casa ai Parioli, circa trent’anni fa.

Insieme con me i compagni di studi o amici dei figli partecipavano a questa cena in cui si parlava di tutto e sembrava quasi di essere al circolo Bloomsbury, se non fosse stato per quella distaccata ironia e romanità che traspariva ad ogni battuta del nostro ospite, dissacrante, corrosiva, mai banale. Perché a casa Tagliacozzo c’era sempre una buona occasione per festeggiare, anche la guarigione da una malattia, anzi soprattutto quella. Stare insieme era un mantra, una filosofia di vita, un marchio della casa, più dei brand commerciali che hanno portato al successo.

Ogni volta che uscivi e tornavi a casa eri più leggero ed arricchito dal confronto, dallo scambio o semplicemente dalla confidenza. I cattivi pensieri svanivano man mano che percorrevi il vialetto alberato di via Bertoloni che come in Matrix dal mondo reale ti portava in quello meraviglioso di Armando, fatto di libri, di viaggi, immaginati o vissuti non importava. Interrogazioni di storia infinite, a raffica, che diventavano eterne come una battaglia navale, finché non cadevi o ti arrendevi.

Mi divennero familiari i suoi gesti fulminei per mangiare di nascosto un pezzettino in più di dolce e il suo sorriso quando veniva scoperto. Era l’unico capace di sorridere anche con gli occhi, facendo strane espressioni come un bambino. Del resto la sua insaziabile curiosità lo rendeva un eterno monello e stentavi anche a credere che dietro quel maglione sempre troppo pesante rispetto alla stagione, o quelle giacche e cravatte da gentiluomo old England c’era un imprenditore di successo, per noi quasi un Warburg in miniatura (e so che per questa similitudine sta ridendo e mi prende e si prende in giro).

Armando Tagliacozzo bambino in Eretz negli anni’ 40

Quando questo sorriso si manifestava riuscivi a perdonargli tutto: l’impazienza e l’impulsività che ogni tanto apparivano, le battute talvolta feroci che più diventavi intimo più ti colpivano. Era una prova di forza, un allenamento alla disciplina della vita. Perché Armando nascondeva talvolta la sua dolcezza per proteggere quel bambino ferito che lui ha tenuto nascosto ma vivo, accudito dentro di sé senza mai dimenticarlo, da quando a cinque anni non ancora compiuti fu lasciato addormentato tra le braccia di una zia mentre i suoi genitori venivano arrestati per essere deportati ad Auschwitz.

“Difenditi da chi ti vuole difendere” diceva volendo a tutti i costi apparire cinico e forte ed all’inizio non capivo. Quando molti anni dopo sono stato davanti al muro delle fucilazioni in quel campo di sterminio dove suo padre era morto ho compreso.

Che alcune ferite guariscono ed altre no, sono pronte a sanguinare ad ogni urto della vita.

Che non basta il riscatto e la rivincita con gli interessi per ottenere la pace, per pareggiare la partita col destino.

Mi chiedevo perché lui che mi appariva sempre più come uno dei personaggi di Israel e Isac Singer, della mitteleuropa di cui tanto amava leggere collezionasse soprattutto arte islamica. Invece era chiaro.

I genitori di Armando, Tosca Di Segni e Gino (entrambi deportati, ritornerà solo Tosca)

La sua passione per la storia e l’idea di catalogarla, ordinarla, darne un senso complessivo e compiuto gli dava la prospettiva pace e lo riconciliava con l’Eternità. In ogni libro sulla comunità galiziana trovavo un pezzetto di Armando. La sua appartenenza al popolo ebraico era forte, radicata. Senza cedimenti sentimentali. Era questo un lusso che aveva represso per sopravvivere all’occupazione nazista, fanciullo innocente davanti al compimento della Storia. Rimanere se stessi con una nuova identità, rispondendo ad un nuovo nome nella Palestina del mandato britannico. Aron che indossa gli tzitzit, che impara l’ebraico, che riesce ad accettare di essere orfano prima di ritrovare la madre e riportare tutto indietro, tornare a Roma, quando in quel caso volver significasse affrontare nuovo dolore.

Non lo trovavi mai appagato, mai in contemplazione del vuoto: c’era troppo da fare. Collezionare, sfidarsi a raggiungere un gradino più in alto per poi guardare nuove mete. Non accontentarsi, rimuovere il tempo che gli era stato sottratto agli studi con una sete di conoscenza inesauribile. Con una mente lucida e brillante, con l’intuito istintivo del commerciante di successo, capace di aprire e chiudere negozi schioccando le dita, senza mai avere dubbi, un tentennamento. Con la sicurezza del fantasista che sorprende sempre l’avversario. Fiero del successo e nello stesso tempo con il desiderio di fare altro.

Armando Tagliacozzo con i figli Alessia, Federico (in piedi), Tamara e Livio

Perché in questo Armando sembrava pensare yiddish: se è stato possibile vuol dire che non era impossibile quindi facile. O non così difficile. Perciò talvolta parlava con i silenzi, con il non detto, con il parlato per allegorie. Come il padre di “Danny, l’eletto”. L’ho visto sbuffare perché nessuno capiva mai come gli dovesse essere servito il bricco del limone da mettere nell’acqua, preferibilmente frizzante. E io chiedermi perché tanto affanno, tanta irruenza per una cosa da niente, e me lo domandavo mentre compravo i limoni quando era a Fregene o glieli lasciavo sul tavolo della sua casa di Londra sperando di fargli piacere, ma inconsciamente per avere la sua approvazione, come tutti noi che gli siamo vissuti intorno. Imparando a giocare di fioretto con lui perché quando si lasciava colpire e lasciava aperto il cuore era una ricompensa grande, valeva l’impresa.

Il Diario di Tosca ricorda la vita dei Di Segni-Tagliacozzo: la deportazione, il ritorno, la partenza per Eretz e poi il definitivo ritorno a Roma (Zamorani, 2020)

Ho imparato ad amare mio padre conoscendo Armando che apparentemente era l’opposto proprio perché mi ha dato la chiave per leggere l’inchiostro invisibile, la tenerezza velata, la debolezza dei padri. Ho avuto la mia berakah da lui per Kippur a settembre, mi ha chiesto se pensavo che sarebbe stata l’ultima volta. Mi sono rifugiato dietro il silenzio ma so che ha tradotto nel modo giusto le mie labbra che invano dicevano altro.

E’ stato un privilegio aver conosciuto Armando Aron Tagliacozzo, imprenditore, collezionista, disincantato signore e ospite ineguagliabile.

Il suo ricordo è una benedizione, זיכרונו לברכה.

7 risposte

  1. Alcune ferite guariscono, altre no.
    La disciplina della vita.
    Guardare nuove mete.
    Un approccio a questa persona valorosa.
    Sicuramente ha lasciato tanti valori umani inestimabili ai suoi .
    Che riposi in pace.

  2. Una descrizione traboccante amore e capacità di cogliere l’essenza dell’altro. Centrata là persona, l’uomo, il bambino nascosti dietro un unico individuo; le contraddizioni proprie di ognuno di noi di cui Armando era l’emblema ne facevano una persona particolare e non comune che emerge da questo ricordo. BDH

  3. cosa è? Non vi è piaciuto il mio commento? Malissimo: la censura comincia con le piccole cose e poi si arriva ad accettare che quello è negro, quello è ebreo, quello è comunista e si trova giusto censurare con metodo in definitiva fascista

  4. Che dolore aver perso un amico meraviglioso come Armando! Simpatico, spiritoso, intelligente, coltissimo e tanto affettuoso!

  5. Sono in ritardo, come spesso mi capita. Ma voglio lasciare ugualmente due parole su Armando Tagliacozzo che ho avuto la fortuna di conoscere grazie alla mia amica Costanza. Di Armando ho sempre ammirato la leggerezza e la modestia che si univano ad un raffinato senso estetico che gli invidiavo sentendolo parlare anche di argomenti a me poco noti. Nella mia piccola casa di Roma convivono due immagini dei miei nonni e quattro di Armando.
    Mi ritengo fortunato e orgoglioso di aver potuto frequentare la tua casa.
    Eugenio D Errico

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