Il 16 ottobre è stato colpito il candore dei giusti

Lia Levi, per gli 80 anni della razzia di Roma, ritorna con la sua scrittura a ricordare quel giorno

Signora Levi, da pochi giorni è in libreria la sua ultima fatica, “Insieme con la vostra famiglia”. Perché questo libro proprio ora?

Lia Levi

Il libro è nato sulla base di alcune considerazioni. Quest’anno cadono gli ottant’anni dal 16 ottobre del 1943, giorno della deportazione di oltre mille ebrei romani dal ghetto, e da tempo sentivo la necessità di soffermare l’attenzione su una data così importante. Molte scuole mi avevano inoltre chiesto brani adatti a essere letti dai ragazzi per ricordare quel giorno. Allora, d’accordo con l’editore, ho pensato di rivedere tutte le scene e le situazioni che nei miei romanzi hanno direttamente o indirettamente a che fare con il 16 ottobre del ’43, in modo da creare una specie di antologia di personaggi e situazioni che si riferiscono a quell’evento. Mi auguro così di essere potuta venire incontro alla richiesta che mi era stata fatta.

Dunque questo è un libro nato anche per essere letto nelle scuole. Che approccio occorre avere quando si decide di parlare di Shoah gli adolescenti?

l’ultimo libro di Lia Levi (“Insieme con la vostra famiglia”, e/o editore)

Direi che occorre distinguere. Quando si entra nelle scuole, infatti, si incontrano varie fasce d’età, e tra queste c’è un’enorme differenza. In generale, nella narrativa per ragazzi si parte da una storia privata e si mettono gli avvenimenti storici sullo sfondo, in modo che il contesto arrivi ai ragazzi in modo per così dire indiretto. Alle medie già è diverso, perché c’è una maggiore consapevolezza, mentre per i giovani del liceo direi che non c’è più differenza rispetto a come si racconta agli adulti. Anzi, spesso sono proprio i ragazzi del liceo a dimostrare di aver letto il testo con maggiore consapevolezza degli adulti, che spesso sono un po’ “frettolosi”. Per cui, quando li incontro a scuola, mi rendo conto dalle loro domande quanto i ragazzi abbiano approfondito il testo. Si tratta di un’esperienza molto interessante.

Tutta la sua produzione narrativa è riferita agli anni della guerra o a quelli precedenti. Si definirebbe una scrittrice della Shoah?

Preferisco definirmi una scrittrice della memoria, perché della Shoah possono scrivere soltanto i testimoni. In realtà ho provato anche a trattare altri temi, ma devo riconoscere che il mio pubblico ha una aspettativa ben precisa nei miei confronti. E così è vero, quasi tutti i miei romanzi trattano della guerra; farei un’eccezione solo per “La sposa gentile”, la cui trama risale al primo ’900 e ricalca la storia di mio nonno, un piemontese che per amore folle sposò una contadina cattolica, la quale si adeguò conseguentemente all’ebraismo. Per il resto, i miei romanzi sono ambientati con la guerra sullo sfondo, da cui emerge, seppure attraverso trame diverse, l’angoscia di quegli anni. Per me gli anni della guerra costituiscono un pozzo sempre in movimento, dove pesco le trame e i personaggi che poi il pubblico si attende.

Piazza Roma
Via del Portico d’Ottavia, cuore del ghetto ebraico a roma

Secondo lei, in questi anni, attraverso i suoi romanzi i lettori hanno potuto comprendere meglio l’universo ebraico?

Quando scrivo mi rivolgo soprattutto a un pubblico non ebraico, in quanto gli ebrei conoscono bene le storie dei miei romanzi, per averle vissute in famiglia, per così dire, in prima persona. Oggi i miei libri vengono letti da un pubblico che negli anni è sempre più consapevole del mondo che descrivo. Ad esempio me ne accorgo ancora una volta quando vengo chiamata nelle scuole, dove i ragazzi spesso hanno effettuato uno studio approfondito dei testi. Mi sembra anche che da quando è stato istituito il Giorno della memoria, anche se sono consapevole di alcune voci critiche su come esso si sviluppi, sì sia approfondito lo studio della Shoah, il che ha aumentato la consapevolezza di quel che è successo, formando una fascia di lettori ampia e interessata.

In effetti la sua letteratura rivolta anche molto all’infanzia e alla preadolescenza. Come unisce questi diversi pubblici: i bambini e gli adulti, l’infanzia e l’adolescenza? Occorre scrivere in modo diverso?

la mattina del 16 ottobre immaginata dal regista Carlo Lizzani

La mia scrittura cambia moltissimo a seconda di quelli che penso possano essere i destinatari del libro. Quando parlo ai ragazzi è come se li avessi davanti, anzi ho davanti me stessa, perché a quell’età ricordo che mi piaceva moltissimo leggere, e quindi è più facile immaginarmi le emozioni di un adolescente. Al contrario, quando mi rivolgo a un pubblico adulto non so chi esso sia né voglio saperlo, perché credo che uno scrittore non debba lusingare nessuno e non debba farsi influenzare dai suoi possibili lettori. In tali casi scrivo semplicemente quello che voglio scrivere.

E come lettrice? Quali sono i suoi autori di riferimento?

Philip Roth con Primo Levi

Innanzitutto Philip Roth, di cui ho letto ogni libro; poi A. B. Yehoshua, anche se non ho letto tutti i libri, perché gli ultimi non hanno raggiunto la qualità dei primi. E poi ancora: I. B. Singer e Amos Oz.

Sono tutti autori ebrei.

Non sarebbe corretto dire che li leggo perché sono ebrei, anche se certo esprimono un modo di sentire che mi è vicino. Credo che siano tutti autori che esprimono la grande letteratura del Novecento. Comunque, amo molto anche Tolstoj, (ho letto “Guerra e pace” sei volte), e poi una scrittrice di racconti, bellissimi, K. Mansfield, per me una scrittrice bravissima.

E tra i contemporanei?

“Patrie” di F. Aramburu

Sono coinvolta ogni anno nella giuria del premio Strega, quindi leggo molti autori contemporanei, però, anche perché alcuni li conosco personalmente, non vorrei esprimervi. Posso dire che c’è un autore che considero uno dei maestri oggi: Fernando Aramburu, perché in “Patria” ha saputo descrivere la Storia [la vicenda del terrorismo basco in Spagna, n.d.r.] attraverso parole e scene quotidiane, di ogni giorno. Per me rappresenta un modello, e il libro è sempre sulla mia scrivania.

La letteratura ha una funzione pedagogica o serve solo a intrattenere il lettore, a toccarne i sentimenti?

È una domanda interessante. Molti pensano che si scrive per testimoniare, invece la scrittura non nasce così. Certo, se si scrive un saggio o un pamphlet lo si fa perché si vuole convincere il proprio pubblico, al contrario letteratura nasce da qualcosa che ci muove dentro. Cito al riguardo sempre Proust: un romanzo che ha uno scopo educativo è come un regalo cui sia rimasto attaccato il cartellino del prezzo. In altre parole, il lettore va trascinato nella storia, è dalla storia che si parte, e solo poi sarà possibile produrre nel lettore un altro effetto, ad esempio una riflessione morale sui fatti narrati. Tutto questo però non deve essere ricercato dallo scrittore in prima battuta. Lo scrittore deve cercare di raccontare una storia.

Lei dedica il libro a Grazia Spizzichino, deportata il 16 ottobre 1943 assieme ai suoi figli. Può parlarci di una di loro, Settimia?

Settimia Spizzichino (1921-2000)

Ho conosciuto Settimia molto bene, perché per un certo periodo capitò di andare insieme nelle scuole e nei dibattiti pubblici, soprattutto all’inizio della Tv privata. Credo che Settimia sia stata la prima a parlare in pubblico della Shoah, intendo dire prima che poi anche tutti gli altri testimoni si facessero avanti, persone meravigliose che hanno mostrato tutte la capacità di trasmettere la loro esperienza. Settimia però è stata la prima, prima cioè che l’opinione pubblica si accorgesse e interrogasse i testimoni, a partire dagli anni ’90. Lei raccontava la sua vicenda con la spontaneità popolaresca. Ricordo che quando uscì il libro “La spia del ghetto”, lei se la prese moltissimo, in quanto c’era scritto che aveva un rapporto di amicizia con Celeste Di Porto, cosa falsa. Questo a dimostrazione della sua vivacità.

Parlando della madre, Grazia, lei scrive che esprimeva il “candore del giusto”. Cosa intende?

Si svolgerà oggi pomeriggio la marcia organizzata dal Comune di Roma per ricordare gli 80 anni della razzia di oltre 1000 ebrei romani

Il candore era quello delle persone abituate a vivere ancora con i ricordi del vecchio ghetto; persone normali, semplici, legate a un mondo che non c’è più e che non riescono a immaginare la brutalità e la disumanità del piano tedesco. Il candore è quello delle persone che restano sempre sul piano umano, delle persone che hanno fiducia nella civiltà. La guerra travolse quel mondo.

Un’ultima domanda. Il 16 ottobre la comunità e la città ricordano la deportazione di oltre 1000 ebrei romani, proprio mentre Israele piange oltre 1000 vittime per mano del terrorismo di Hamas. Quali sono i suoi sentimenti in queste ore?

Israele ha subito oltre 1200 vittime (quasi tutte civili), nell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre

Vivo queste ore con indicibile angoscia. Come abbiamo sentito e come ci è stato fatto notare dagli storici, questi assalitori attaccano non gli israeliani, ma gli ebrei. Siamo cioè tornati ai pogrom. Oggi purtroppo per la prima volta siamo costretti a dire che stiamo assistendo alla stessa logica che ha portato alla Shoah. E mi lasci aggiungere che, quando sento molti condannare queste violenze, ma poi aggiungere un “però” (“però, anche Israele ha le sue responsabilità”) io dico questo: non nego che si possa ragionare sugli errori di una democrazia imperfetta, ma questo non può essere detto ora. Ora, nel momento in cui abbiamo ancora negli occhi lo strazio delle vittime e dei bambini, questo “però” è pronunciato troppo presto, ed è straziante perché nega il nostro dolore.

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