Fare cultura a New York nel nome di Primo Levi

Natalia Indrimi è Executive Director del Primo Levi Center di New York. In questa intervista spiega cosa significa esplorare e diffondere la cultura ebraica italiana negli Usa, e perchè non si sente un “cervello in fuga”

Natalia Indrimi, se permette vorrei partire un po’ da lei. Il suo nome tradisce chiaramente le sue origini italiane, per cui vorrei chiederle da quanti anni è negli Usa, e se la sua è l’ennesima storia di un cervello italiano in fuga.

L’idea dei cervelli in fuga è frutto di vari pregiudizi sostanzialmente nazionalisti. Ne parliamo un po’ come una perdita di corrente o una perdita di un capitale che, se non fosse fuggito, avrebbe potuto far prevalere una nazione sull’altra. A mio vedere, l’umanità e la conoscenza si sono sviluppate attraverso il movimento, il cambiamento di prospettiva, l’adattamento. A volte per scelta, altre no. Sono negli USA da oltre trent’anni e penso che in ogni paese ci siano persone che partono e persone che arrivano e che siano tutti tramiti di un processo di arricchimento reciproco.

Lei è executive director del Primo Levi Center. Può raccontarci degli inizi del Centro?

Tullia Zevi (1919-2011)

Il Centro è nato nella seconda metà degli Anni Novanta, legato inizialmente alla New School. Eravamo un piccolo gruppo, incluso il neurologo genovese Alessandro Di Rocco. In Italia ci hanno molto incoraggiato Piero Dello Strologo e Tullia Zevi. Poi è entrata Stella Levi, originaria di Rodi, che ha dato una forte impronta alle attività e ci ha spinto a lavorare sui fascismi coloniali e l’ebraismo sefardita nel Mediterraneo; e poi il giornalista Andrea Fiano, la neuroscienziata Lice Ghilardi, il matematico e imprenditore Andrew Viterbi e sua moglie Erna Finci z’l, solare e instancabile. Le loro due storie di esilio, percepito in maniera diversissima, hanno contribuito molto al nostro dibattito interno. Per qualche tempo il centro è rimasto una realtà fluida in cerca di una sua funzione. Si facevano piccoli programmi e si ascoltavano le varie reazioni istituzionali, accademiche, del pubblico.

E lei come è entrata come è arrivata al suo ruolo?

Andrew Viterbi (1935), ingegnere. Nato a Bergamo, è emigrato negli USA con la sua famiglia a causa delle leggi razziali

All’epoca collaboravo a progetti di nicchia, sul rapporto tra istituzioni e narrativa storica. Ho lavorato molto con Art Spiegelman, che in quegli anni aveva allargato drasticamente il dibattito su storia e memoria, e collaboravo con l’allora non ancora aperto Center for Jewish History, scaturito da un’idea molto innovativa di consorzio archivistico. Poco dopo mi hanno invitato a dirigere l’ufficio di programmazione e relazioni accademiche. È stata una palestra di molti anni dalla quale sono poi passata al CPL. Nel frattempo il CPL è entrato nel consorzio, ma rimanendo indipendente. È diventato direttore editoriale Alessandro Cassin che ha fondato la rivista Printed Matter e la casa editrice CPL Editions, dando una base solida al ruolo del centro come public forum.

Come mai un centro culturale dedicato a Primo Levi a New York?

Art Spiegelman, disegnatore, collaboratore del PLC

I problemi che Primo Levi articola sul potere dell’uomo sull’altro uomo, sulla natura e sul sapere, la conoscenza della storia del XX secolo, in particolare quella nel Nazi-Fascismo e la creazione del lager, la fragilità dell’etica e della pace, riguardano tutti e credo sia per questo che i suoi scritti sono letti in oltre 40 lingue.

Quant’è conosciuta la figura di Primo Levi in America?

(continua pag. 2)

Una risposta

  1. L’ultima frase dell’intervista è veramente importante: idee come quelle di “leadership”, “identità”, “eccellenza” o “best practice” (la lista è lunga), sono sostanzialmente vuote come la loro radice suprematista e i loro effetti dal punto di vista intellettuale ed etico sono sotto gli occhi di tutti.
    Grazie Natalia!

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