Vi racconto la comunità ashkenazita
Alberto Heimler, attuale presidente del Tempio ashkenazita, racconta la storia di una comunità costituita nel dopoguerra, che a via Balbo oggi si integra con la componente degli ebrei libici
Dottor Heimler, cominciamo da lei. Lei non è romano, cosa l’ha portata a vivere in questa comunità?
Vivo a Roma da molto tempo, ma sono nato a Firenze, da famiglia ashkenazita. A Roma sono arrivato per lavoro nella seconda metà degli anni Settanta. Mi sono laureato in economia, poi sono andato in America, dove ho conseguito un Master in Business Administration, e ho studiato per un PhD in economia che non ho mai terminato perché ho iniziato a lavorare al neo costituito Centro studi Confindustria – a quell’epoca il presidente era Guido Carli e Paolo Savona il direttore generale – vivendo un’avventura entusiasmante, continuata per 20 anni. Poi, lavorando dal 1991 all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ho scoperto la mia passione, l’antitrust e le politiche a favore della concorrenza. Anche quella all’Autorità è stata un’esperienza eccellente, stimolante e formativa ma anch’essa era destinata a terminare. Così dal 2008 sono diventato professore di economia alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione e qui ho avuto l’opportunità di formare su queste mie tematiche tanti giovani dirigenti pubblici.
E della sua famiglia?
I miei genitori zl erano di Fiume, ebrei italiani, ma di origine ungherese. Con le leggi razziali, mio padre si trasferì a Firenze, provando a trovare un’attività nonostante le leggi sempre più persecutorie. Dopo essersi rifugiati in Svizzera i mei genitori tornarono a Firenze dopo la guerra. A Firenze c’era allora una piccola comunità di ebrei ashkenaziti di cui anche noi facevamo parte; le funzioni religiose si svolgevano nella vecchia sinagoga dell’ex ghetto a via delle Oche, vicino a piazza del Duomo, in un palazzo poi venduto all’inizio degli anni Sessanta per costruire la nuova scuola ebraica; così la comunità ashkenazita si trasferì nella palestra della scuola. Da circa 50 anni quella comunità non esiste più.
E quanto a lei? Si è sempre ritrovato nella tradizione ashkenazita?
Certo. Da giovane avevo una forte identità ebraica, che poi avevo rafforzato negli Usa, in particolare a New York, dove ho vissuto circa 4 anni. New York infatti è una città che, pur nella sua vastità e tendenza a uniformare il modello di vita dei suoi abitanti, consente al tempo stesso di mantenere e rafforzare la propria identità di origine. È stato lì che io ho ricreato la mia identità ebraica, mantenendo e rafforzando anche la mia identità italiana e allo stesso tempo sentendomi cittadino di New York.
E a Roma? Come è stato l’impatto con la comunità locale?
A Roma, appena arrivato, inizialmente non ho seguito molto la vita comunitaria. Certo, andavo al Tempio per i moadim, ma per il resto facevo poco altro. Fino a quando, grazie anche a mia moglie, interessata a “riscoprire” il suo ebraismo, ho cominciato un percorso di maggiore osservanza.
Immagino che frequentasse la comunità ashkenazita.
Sì, l’ho sempre frequentata, perché anche la mia prima moglie era ashkenazita e seguivamo le tradizioni di famiglia. Al Tempio mi aveva da sempre incuriosito rav Hazan. Era allora un giovane rabbino, appena arrivato in Italia, ed ero molto attratto dal suo modo di porsi: era infatti un rav molto aperto e disponibile verso gli altri, molto accogliente e aperto, in grado di dare risposte ai diversi gradi di spiritualità delle persone che si rivolgevano a lui.
Lei attualmente è presidente del Tempio ashkenazita.
Sì, dal 2016. Il mio compito principale è garantire il finanziamento delle spese del Tempio e anche di tenere il Tempio “in ordine”. Negli ultimi anni abbiamo completato la sua integrale ristrutturazione. Inoltre insieme a rav Hazan mi occupo dell’organizzazione dei servizi religiosi. Il tempio è infatti aperto tutti i giorni.
Ci può parlare della comunità ashkenazita romana?
Si tratta di una comunità sorta a Roma dopo la liberazione del 1944; era in gran parte formata da persone che si erano rifugiate nel Sud Italia, alcuni erano stati internati nel campo di Ferramonti, altri, in fuga dai nazisti, erano riusciti a passare la linea del fronte e si erano ritrovati a Bari. Dopo la liberazione molti di loro vennero a Roma. Erano un gruppo cospicuo, che inizialmente pregava nei locali della Cer a via de Pretis, e poi, dalla metà degli anni 70, a via Balbo.
Fu creato un Tempio ashkenazita proprio per accogliere questa comunità?
Sì. A via Balbo vennero riadattati i locali che all’epoca ospitavano gli alloggi del custode, oltre allo spazio per il forno delle azzime per Pesach: tutta l’area venne destinata alla realizzazione dell’attuale Tempio ashkenazita su progetto dell’architetto Angelo Di Castro.
Ci può dire qualche altra cosa sulla storia del Tempio?
All’inizio il Tempio era autogestito. C’erano infatti famiglie di tradizione e di osservanza tali da essere in grado di gestire i servizi religiosi. Dalla seconda metà degli anni Settanta è arrivato rav Hazan. Tuttavia Il Tempio non era aperto nei giorni feriali, come oggi; l’apertura quotidiana fu avviata negli anni Novanta su iniziativa della famiglia Kahlun.
E della comunità ashkenazita originaria, oggi che mi dice?
Direi che oggi le famiglie ashkenazite che vivono a Roma non saranno più di una ventina; in totale, quindi, circa un’ottantina di persone. La comunità si è assottigliata sempre di più con il passare degli anni, sia per motivi anagrafici, sia perché molti si traferirono negli Usa e in Israele. Più recentemente, sono le giovani generazioni a lasciare Roma e talvolta anche l’Italia. Delle mie figlie, per esempio, nessuna oggi è a Roma: una vive a Tel Aviv, un’altra ad Amsterdam e la terza studia a Milano. Posso dire che la comunità nel dopoguerra era relativamente rigogliosa e vivace – per esempio si parlava yiddish, anche se non a casa mia – e poi si è assottigliata progressivamente, rendendo talvolta difficile il minian; grazie a rav Hazan però il tempio è rinato, anche come conseguenza della crescente integrazione con la comunità tripolina.
Che minhag si segue?
Il minhag è ashkenazita per shabbat e i moadim, sia pure con alcune “flessibilità”; nei feriali invece seguiamo il rito italiano o quello tripolino, a seconda del chazan.
Che differenze ci sono tra il minhag ashkenazita e gli altri utilizzati?
Direi, in generale, che il rito ashkenazita è più rivolto alla preghiera individuale, probabilmente perché il grado di istruzione e di conoscenza delle preghiere era maggiore tra gli ebrei ashkenaziti; quindi non c’è la necessità di una recitazione a voce alta, che invece si fa per far uscire d’obbligo chi non legge l’ebraico. Per chi è in grado di seguire, il nostro rito dà una possibilità di maggiore concentrazione, perché ciascuno è attore della tefillà, più che ascoltatore.
Come si è realizzata l’integrazione con gli ebrei libici nel “suo” Tempio?
Da noi c’è stata una integrazione totale. Come ho detto prima, questo è accaduto per lo più per merito di rav Hazan che è riuscito fin dal suo arrivo a integrare benissimo la comunità tripolina all’interno del nostro minhag che col tempo è diventato un multi-minhag.
Un’ultima domanda. Lei proviene da fuori Roma, e vive qui da circa mezzo secolo. Come è cambiata oggi la nostra comunità rispetto al passato?
La Cer è passata attraverso grandi fasi; all’inizio era molto coesa, nel senso che gravitava quasi tutta attorno al Tempio Maggiore, e vedeva in quel luogo il suo punto di riferimento e la propria identità. Negli anni c’è stata invece la moltiplicazione dei templi e la comunità si è molto più diffusa nel territorio della città. Questo da un lato ha rafforzato l’offerta religiosa, ha moltiplicato i servizi e favorito l’osservanza dall’altro, forse, ha reso la comunità un po’ più “distante”, in qualche modo disunendola, perché queste micro comunità che ruotano attorno al loro tempio tendono a rendersi più autonome. Il problema della crescente assimilazione però rimane.