Ben-hashemashot = tra i due soli: la quotidianità del miracolo e il miracolo del quotidiano
Miriam Camerini ci accompagna nella lettura del V capitolo dei Pirkè Avot, letto lo scorso shabbat e che ci accompagnerà per tutta la settimana
Il V capitolo dei Pirkè Avot, quello di questo Shabbat, è il mio preferito, da sempre.
Fu mio padre a mostrarmene per la prima volta la VI mishna, quando ero piccola o poco più che bambina; la riporto qui per intero e per oggi parleremo solo di questa, anche se tutto il capitolo è meraviglioso e pieno di cose divertenti, sicuramente il migliore del trattato:
עֲשָׂרָה דְבָרִים נִבְרְאוּ בְּעֶרֶב שַׁבָּת בֵּין הַשְּׁמָשׁוֹת, וְאֵלּוּ הֵן, פִּי הָאָרֶץ, וּפִי הַבְּאֵר, וּפִי הָאָתוֹן, וְהַקֶּשֶׁת, וְהַמָּן, וְהַמַּטֶּה, וְהַשָּׁמִיר, וְהַכְּתָב, וְהַמִּכְתָּב, וְהַלּוּחוֹת. וְיֵשׁ אוֹמְרִים, אַף הַמַּזִּיקִין, וּקְבוּרָתוֹ שֶׁל משֶׁה, וְאֵילוֹ שֶׁל אַבְרָהָם אָבִינוּ. וְיֵשׁ אוֹמְרִים, אַף צְבָת בִּצְבָת עֲשׂוּיָה:
Dieci cose furono create alla vigilia dello Shabbat “fra i due soli”, ed esse sono: la bocca della terra, la bocca del pozzo, la bocca dell’asina, l’arco(baleno), la manna, il bastone, l’insetto che (cor)rode, lo scritto, la scrittura e le tavole; e c’è chi dice: anche i disturbatori, la sepoltura di Mosè e l’ariete di Abramo nostro padre. E c’è chi dice: anche la pinza fatta con la tenaglia.
Wow. (wow l’ho aggiunto io). Per prima cosa capiamo quando è ambientata questa mishna, che – a differenza di molte altre nel trattato di Avot, ma come invece tutte le prime di questo V capitolo – narra degli avvenimenti e dunque è collocata in un tempo, ancorché del tutto originale. Ben hashmashot, “fra i due soli”, o “fra i due astri” è un’espressione tipicamente rabbinica – alachica, in quanto compie quell’operazione che se vogliamo rappresenta tutta l’azione umana: mediare tra natura e cultura, osservare un evento naturale e dargli un significato e uno scopo nella nostra vita di individui e di appartenenti a una comunità. Ben hashmashot è il crepuscolo, il momento della sera (a volte lo troviamo usato anche per indicare il suo analogo mattutino, ma io per mia indole frequento decisamente meno l’alba che il tramonto, e in ogni caso qui si parla di “vigilia del sabato”, erev shabbat, quindi siamo certi che sia sera), in cui il giorno si confonde nella notte, che è poi la ragione per cui l’ebraico per “sera”, appunto, è erev, radice che significa miscuglio, unione: mescolanza di giorno e di notte, di luce e di buio, di oggi e di domani. Non ho mai trovato una spiegazione completamente convincente di che cosa siano i “due soli”, e forse è meglio così, perché l’immagine rimane un po’ indecifrabile e tanto poetica che ho scelto di usarla come nome per tutti i miei progetti teatrali e musicali; un’altra affermazione rabbinica (non nei Pirke Avot) sostiene che l’unico tempo che si può dedicare alla cultura “greca”, ossia a tutto ciò che non è Torah, è “quando non è giorno né notte”. Il teatro è – almeno alle origini – “cultura greca” e l’idea di praticarlo quando non è giorno né notte, bensì un miscuglio di entrambi, e dunque chiamarlo Benhashmashot mi diverte, ossia distrae, che è poi quello che il teatro per i Maestri del Talmud è chiamato a non fare, ma di questo parleremo un’altra volta.
La sera è peraltro quasi ovunque il tempo dell’inizio del riposo, quel tempo fra lavoro e sonno in cui si possono concentrare tutte le cose belle, ma è anche – tornando al nostro testo – il momento fra il dominio del sole e quello della luna e delle stelle, in cui avvengono o possono avvenire tutte le cose “magiche”, miracolose, stra-ordinarie. Quella co-reggenza di luce e buio, razionale e irrazionale, maschile e femminile permette – per un breve tempo diverso da tutti gli altri – l’esistenza delle cose che escono dal “normale”. L’idea che Dio nel creare l’universo come lo conosciamo (si fa per dire) abbia già previsto alcune “eccezioni” e che queste siano qui elencate, in un capitolo pieno di altre liste di cose, traballa in bilico fra il rassicurante e il fantasioso, ed è anche per questo che ho sempre amato questa mishna. Forse si è fatta l’ora di andare a vedere quali sono queste dieci cose create in extremis e quali sono state poi ancora aggiunte in coda. Stiamo parlando dunque della fine del sesto giorno della creazione, quando il mondo è già tutto fatto e così anche il primo umano, “maschio e femmina”. Dio ha compiuta l’opera, alla quale manca ancora solo il tocco finale per essere completa: il riposo, la sosta, lo shabbat. Fra i due soli, quando forse è ancora tempo di creare o forse è invece già ora di fermarsi e cessare, entrano in scena: la bocca della terra che si spalancherà una volta per inghiottire il sedizioso Korach e la sua accolita di ribelli in Numeri 16:32, un po’ come alla fine del Don Giovanni di Mozart, alla cena del commendatore. Ma non disperdiamoci ancora nel teatro…
La seconda delle tre bocche è quella del pozzo di Miriàm la profetessa, sorella di Moshe e Aron, che accompagna i figli d’Israele nel deserto fino alla sua morte, secondo il midrash: un pozzo portatile è decisamente un miracolo utile per un popolo assetato da quarant’anni di cammino nel Sinai. La terza bocca è la mia preferita: in Numeri 22:28 si racconta di Bilam, mago pagano chiamato dall’altrettanto pagano re Balak a maledire Israele per impedirne la conquista della Terra “promessa”. Bilam viene diffidato in vari modi dall’Eterno e invitato a desistere dall’impresa, ma il modo più convincente è quello di fargli parlare direttamente dalla sua asina, “su cui ha cavalcato fin dall’infanzia”, come dice lei stessa, appena dio le “apre la bocca” e le concede, per quella volta soltanto, di parlare il linguaggio umano, quantomeno un linguaggio che “quell’asino di Bilam” possa intendere, da asina ad asino, diciamo. Assieme al serpente di Genesi 3 l’asina è l’unico animale parlante di cui sappiamo nella Bibbia, si noti, e l’unico per cui è fornita nella Torah una “giustificazione”: dio le “apre la bocca”, appunto.
Finite le tre bocche, passiamo a un altro terzetto: l’arco, la manna e il bastone.
L’arco capiamo essere quello baleno che compare alla fine del diluvio universale per suggellare il patto fra l’eterno e Noè, rappresentante dell’umanità, cui viene promesso che non sarà più spazzata via assieme al suo mondo. L’arcobaleno sta qui secondo me assieme a un’altra cosa creata però alla fine di questa mishna, l’ariete di Abramo, ossia quel povero caprone che si fa trovare impigliato per le corna dentro a un cespuglio proprio mentre il patriarca è alla ricerca di un sacrificio alternativo da offrire al posto del figlio Isacco, che gli è appena stato risparmiato (quando si dice “essere al posto giusto nel momento giusto”..) l’ariete e l’arcobaleno svolgono in questa vicenda una funzione che trovo simile: quella di mostrare che il finale – positivo, di salvezza e sollievo – era già previsto dall’inizio della storia, quantomeno nella mente di dio: Itzchak non verrà sgozzato, dunque Avraham cercherà un sostituto (e da allora, secondo un commento, il sacrificio è ciò che si offre al posto di noi stessi), la collera divina si placherà, il diluvio finirà e dio si “pentirà” di averlo mandato, promettendo di non farlo mai più. Non così, almeno.
Tornando all’ordine della mishna e al terzetto, dopo l’arcobaleno abbiamo la manna – nutrimento dei figli d’Israele mandato dal cielo costantemente per 40 anni di peregrinazioni nel deserto, il miracolo più lungo della Torah, il contrario dell’apertura del Mar Rosso, che infatti segue di appena due capitoli, a segnalarne il contrasto: un miracolo quotidiano come il pane, subito dopo gli effetti speciali hollywoodiani. Il rapporto tra l’apertura del Mar Rosso (che non è nel nostro elenco) e la “quotidiana costanza” della manna serve forse a comprendere anche la “miracolosità” dell’ultimo elemento del nostro trio: la verga di Mosè, quel bastone che dio fa notare a Mosè in Esodo 4 mostrandogli e insegnandogli che con esso, proprio con quel bastone che già ha in mano e che da sempre usa per camminare e condurre il gregge del suocero può iniziare a far camminare (come poi dentro al Mar Rosso) e condurre “in proprio” il gregge del popolo di Israele fuori dal grembo dell’Egitto. Secondo un commento, ciò che rende miracoloso il bastone di Mosè non è tanto la sua “capacità” di trasformarsi a richiesta (quando Moshè lo getta a terra) in serpente: quello lo sa fare anche l’ultimo apprendista stregone in Egitto, no: ciò che lo rende “divino” è la capacità di tornare un regolare bastone, come dire.. La cosa più difficile qui è essere normali.
Salto i prossimi tre oggetti della nostra lista, relativi alla scrittura e alla forma delle lettere delle tavole del patto, nonché alle tavole stesse, per venire rapidamente a due “esserini”: il primo, lo shamir, sarebbe una sorta di insetto rosicchiatore che “scalpella” la pietra permettendo la costruzione del mizbeach, l’altare del Santuario di Gerusalemme, senza l’uso di lame o altri oggetti contundenti come scalpelli e martelli: un inno alla pace nella città dalla radice ShLM, un interessante contrappunto alla violenza del sacrificio animale, un tikkun, redenzione dell’atto guerresco di Moshè che batte la pietra per farle lacrimare acqua, errore che gli costa la non-entrata nella Terra dei padri e delle madri? Chissà. L’altro è già una aggiunta extra: “C’è chi dice” che in questa lista ci sono anche i mazikim, spiritelli maligni (alla lettera: danneggiatori) che, come il loro principale, lo yetzer harah, istinto al male, sono necessari alla vita come il lievito al pane: senza un po’ di istinto primordiale non fermenta nulla e nemmeno le galline depongono più un uovo, dicono i Maestri in TB Yoma 69. Torniamo poi a Moshè e – appunto – alla sua sepoltura nel deserto, fuori da Israele, per ricordare che è luogo non destinato al culto, volutamente segreto e nascosto, preparato dall’inizio dei tempi: Dio quindi sapeva che il Suo amato principe egiziano non sarebbe stato l’uomo giusto per condurre il popolo fin dentro la terra: il suo compito per forza sarebbe finito lì, alla fine dell’erranza, alle soglie del passaggio fra esilio e “stabilità”. Del povero caprone di Abramo già abbiamo detto, passiamo al più bizzarro e ultimo dei nostri oggetti: la pinza fatta con la tenaglia: di questa in particolare tante volte ho parlato e parlo con mio padre, che infatti è sia ingegnere che studioso di Torah. Dopo tanti miracoli e cose stra-ordinarie, l’estensore di questa Mishna si domanda: per creare tutto questo serve almeno una prima pinza, una tenaglia con la quale forgiare e maneggiare tutti gli strumenti per creare tutto il resto, all’infinito: questo primo strumento da dove viene? L’idea è proprio quella di un “passaggio di consegne” fra la divinità che ha finito la sua parte, creato tutto quel che doveva creare e che – subito subito prima di lasciare spazio allo Shabbat – ritirarsi, con la sosta, menuchà, dalla creazione, perché questa possa continuare in (relativa) autonomia nelle nostre mani, mette un primo strumento con il quale noi poi per sempre ci creeremo tutti gli altri. Un simile potere, tale immensa responsabilità va però tenuta sotto controllo: il momento in cui riceviamo questo primo strumento di creazione e dunque anche di potenziale distruzione è quindi – per questo – proprio quello in cui per prima cosa siamo chiamate e chiamati a non-usarlo, prima di tutto: fermarsi.
Shavua tov
(oggi è il giorno 40 dell’Omer)
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Di cosa abbiamo parlato questa settimana
lunedì (e martedì) Roberto Della Rocca ci ha descritto la situaizone poltica in Israele
Mercoledì, Klaus David ci ha spiegato qualcosa circa l’efficacia della comunicazione di Israele
Giovedì abbiamo parlato delle armi usate da Hezbollah
Venerdì abbiam oraccontato la storia del talled del rabino Marco Mortara