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Pagine scelte, a cura di Tamara Tagliacozzo

“L’inferno di Treblinka” di Vasilij Grossman (Adelphi, 2010)

Ha un senso il fatto che l’ingresso al Museo Yad Vashem a Gerusalemme sia vietato ai minori di dodici anni. Ancora sconto il trauma terribile della lettura del libro “In nome dei miei” di Martina Gray (alias Mietek Grajewski, polacco naturalizzato americano e vissuto in Francia e in Belgio) edito nel 1972 da Rizzoli.

Avevo accesso, ancora prima dei dieci anni, alla biblioteca paterna senza alcun filtro; addirittura la letteratura sulla Shoah ci veniva proposta, dall’età di sette-otto anni, insieme alla lettura del diario di mia nonna Tosca Di Segni Tagliacozzo*, scampata ad Auschwitz, che ha scritto un “riassunto della prigionia” una volta tornata a Roma nell’agosto del 1945, dopo essere stata liberata a Theresienstadt all’inizio di maggio dai russi e avere peregrinato per mesi in Europa. Il diario di mia nonna non era crudo, il suo grande dolore veniva espresso, nelle descrizioni della vita del campo, con parole secche, semplici, e con qualche anatema. Le emozioni erano riservate al ricordo dei figli lasciati e alla speranza che il marito Gino fosse sopravvissuto alla prigionia.

Ho sempre letto molto sulla Shoah, ma il mio libro-trauma è stato “In nome dei miei”. E la mia mostra-trauma l’ho vista a dieci anni, accompagnata dalla scuola, con foto giganti dei forni crematori. Quelle immagini mi tormentano ancora, perché non le avevo mai viste prima ed erano così grandi che non potevo distogliere lo sguardo.

Noi, i nipoti dei deportati, siamo stati inondati dal dolore troppo presto, e non avevamo nessuna difesa. Leggere “L’inferno di Treblinka” (Adelphi) mi ha riportato a quelle prime letture, a quelle notti piene di incubi. Si tratta del primo reportage dai campi, uscito nel 1944 sulla rivista Zamja’e firmato dal più popolare e seguito corrispondente dell’Armata Rossa: Vasilij Grossman.

Grossman raccoglie testimonianze e descrive il campo, già distrutto e teatro di una rivolta coronata da successo, pochi mesi dopo la cessazione delle sue infernali attività. Diecimila morti al giorno, chi arrivava con i convogli prima veniva gasato e poi bruciato in enormi buche.

Con grande abilità narrativa ma anche con un’enorme rabbia, quasi un urlo, l’autore ci presenta piano piano l’inferno: l’arrivo dei treni, l’incredulità, lo sgomento, la paura e infine lo strazio. Mosche grasse che fanno insospettire chi arriva in un luogo sabbioso. E poi, piano piano, la conferma della fine imminente, gli atti crudeli dei sadici esecutori. Grossman ha intervistato chi ha visto, la cenere non si era ancora depositata completamente, e tutto intorno era coperto di quella cenere. Racconta anche di come Himmler sia arrivato a Treblinka per ordinare di bruciare i cadaveri e di non seppellirli soltanto, perché dopo la sconfitta nella battaglia di Stalingrado era cominciata la paura che si potesse scoprire l’atrocità dei campi. Ed esalta l’eroismo dell’Armata Rossa, di cui fa parte, e dell’esercito sovietico, che ha fermato i tedeschi a Stalingrado.

Un libro bellissimo e terribile, ma ormai sono grande e posso sopportarlo.

* “Il ritorno di Tosca”, Silvio Zamorani editore, 2021

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