Un paradigma per la memoria: la Shoah come monito, di Victor Magiar

Da diversi anni incontriamo persone che parlano della Memoria come si trattasse di una disciplina accademica, o di un esercizio intellettuale: forse hanno ragione ma, personalmente, penso che quando parliamo di memoria della Shoah, non parliamo di memoria, ma parliamo di Shoah.

Anche per questo non concordo con l’assunto iniziale della Carta della Memoria di Gariwo – Comitato per la Foresta dei Giusti onlus di Milano – che sostiene addirittura che “la memoria a livello educativo è stata una grande scuola perché ha permesso di comprendere come i genocidi non sono stati una catastrofe extrastorica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani”.

Abbiamo avuto bisogno dell’esercizio della “memoria” per comprendere? No, piuttosto è vero il contrario. “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare”: avevamo saputo e così abbiamo iniziato a fare memoria. Avevamo compreso che, in forme diverse, si sarebbe potuto ripetere e così abbiamo iniziato a fare memoria: non per i morti di ieri, ma per i vivi di domani.

Non solo. Avevamo compreso che, in forme diverse, si sarebbe potuto ripetere ovunque e contro chiunque, e quindi abbiamo iniziato a fare memoria per chiunque: un fatto storico particolare per trarre un monito universale. Questa è stata negli ultimi tre decenni quella “azione sociale” che chiamiamo fare memoria: raccontare una storia particolare che, proprio per le sue numerose particolarità, è assurta a vicenda universale.

La giornata del 27 gennaio è divenuta una ricorrenza internazionale sancita nel 2005 dall’ONU, celebrata ormai in tutta Europa, in molti paesi del mondo e anche in Italia dall’anno 2000. Eppure, ciclicamente, si ripropone il tema del significato della giornata del 27 gennaio. E contestualmente, ciclicamente, si ripropone il tema del rapporto, della comparazione, della Shoah con altri stermini e genocidi, ed ora, anche con altre tragedie di altra natura come, ad esempio, le pandemie.

C’è chi (più o meno sottilmente) lo fa in funzione antiebraica: “nei campi di sterminio non sono morti solo gli ebrei, non c’è stato solo il genocidio del popolo ebraico”, etc. C’è poi chi lo fa perché ama l’umanità intera, come nel caso della Carta della Memoria di Gariwo che recita “è importante che nelle giornate della memoria ci sia una costante informazione non solo sulla Shoah e sui genocidi del passato, ma su tutte le atrocità di massa del nostro tempo come ad esempio la persecuzione genocidaria nei confronti dei rohingya in Birmania, degli yazidi in Iraq, degli uiguri in Cina, i crimini dell’ISIS, gli stupri di massa in Congo, fino agli effetti devastanti delle pandemie, dei cambiamenti climatici, che possono provocare migrazioni, conflitti e tragedie la cui portata va oltre alla nostra immaginazione”.

Bene: il prossimo 27 gennaio parleremo di pandemie? Francamente, pur condividendo lo spirito e la motivazione, ed amando anche io l’umanità intera, non comprendo la proposta pratica, che trovo assurda, dannosa e pericolosa.

Perché, invece di dedicare giornate specifiche ad ognuno di questi temi, tutti importanti – per il nostro passato come per il futuro – si preferisce trasformare l’anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz in una kermesse su molteplici disastri del nostro mondo? Nessuno di questi temi riceverebbe il dovuto risalto, confusi fra loro perderebbero di importanza e dignità ed anche di qualsiasi speranza di impatto.

Inutile dire poi che il difficilissimo tentativo di spiegare cosa è stata la Shoah, come è nata la Shoah, non avrebbe più alcuna chance di riuscita. Ma ciò che più inquieta sono le analogie, la comparazione dell’incomparabile: la Shoah sarebbe come altri genocidi o, anzi, come altre atrocità o come altri disastri climatici.

La discussione sulla comparazione della Shoah è una questione davvero molto seria, dibattuta da grandi figure del Novecento, difficilmente riassumibile qui in poche righe ma, certo, si è sempre trattato di discussioni comparative fra genocidi e di discussioni sulla definizione (qualitativa e quantitativa) di genocidio.

Mi limito a ricordare che la stessa introduzione della modernissima parola “genocidio” coniata nel 1944 dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin per definire (giuridicamente) la tragedia armena, ha posto la questione del paragone fra genocidi. Da subito, paragonando i genocidi della modernità e del passato, si è introdotto il concetto dell’unicità della Shoah: una unicità poi divenuta specialità, particolarità, peculiarità, e infine il genocidio senza precedenti o, addirittura, il genocidio paradigmatico del Novecento. Non comprendere, oggi, la singolarità (unicità, specialità, particolarità, peculiarità, etc.) della Shoah è un grave abbaglio culturale. Ed è un abbaglio culturale ancora più grande non saper riconoscere la coesistenza, la interdipendenza, fra la dimensione particolare e la valenza universale della Shoah (e di qualsiasi altro evento storico rilevante).

La proposta di un’unica giornata dedicata alla memoria, non solo sulla Shoah e sui genocidi del passato, ma su tutte le atrocità di massa del nostro tempo – gli stupri di massa, le pandemie, dei cambiamenti climatici, pensando così di dare una valenza più universale la giornata del 27 gennaio, sarebbe una vera catastrofe culturale e politica. Questa proposta, in un’epoca in cui buona parte dei giovani studenti e del pubblico più vasto non coglie la distanza temporale fra Giulio Cesare, Napoleone e Kennedy, oltre ad incrementare la confusione culturale e l’indifferenza emotiva nella nostra società, tradisce una subalternità culturale che premia il sensazionale del contemporaneo a discapito dell’approfondimento della storia e della memoria dell’esperienza umana. È questo un equivoco del nostro tempo, dove la realtà sarebbe ciò che ci raccontano i media e non ciò che incontriamo – o abbiamo incontrato negli anni – per strada, o nei nostri edifici. Una subalternità così evidente da equivocare le parole di uno dei massimi esperti di Shoah, lo storico Yehuda Bauer, confondendo le sue considerazioni etiche con le sue considerazioni di caratere storico: quando ci ricorda che sul piano umano non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei russi e dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario, e quando poi ci spiega che la Shoah è il genocidio paradigmatico del Novecento, un male estremo che permette di cogliere il punto più terribile dove può arrivare la distruzione dell’umanità, un evento “senza precedenti, non unico”.

La Memoria della Shoah non è un esercizio intellettuale con cui misurarsi ciclicamente, addizionando anno dopo anno, proposte originali.

Dobbiamo invece farci carico di un’azione costante negli anni: insistente, ordinata, creativa e positiva; che sappia lasciare segni indelebili nelle nostre strade, nelle nostre case, nelle scuole e nei luoghi dove lavoriamo; nei nostri incontri nei cinema, nei teatri, nei campi sportivi; nei programmi televisivi, nei libri e nei giornali che leggiamo ogni giorno. Dobbiamo farci carico di un’azione nella società, fra la gente di ogni giorno e di ogni luogo, che sappia lasciare nelle menti e nelle anime una memoria indelebile, non per una tragedia fra tante, ma per la tragedia ‘senza precedenti’: la memoria della Shoah è già il monito.

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