Un ebreo milanese tra i maestri del diritto
Giorgio Sacerdoti, giurista di fama internazionale, racconta della sua famiglia, della sua professione, e del suo impegno nel mondo ebraico italiano, compreso il recente Fondo per i risarcimenti da crimini nazisti
Caro Giorgio, vorrei cominciare questa intervista dalla tua famiglia. Leggendo alcuni tuoi libri (in particolare due: Piero Sacerdoti: Un uomo di pensiero e azione alla guida della Riunione Adriatica di Sicurtà, Hoepli 2019; Nel caso non ci rivedessimo. Una famiglia tra deportazione e salvezza 1938-1945, Archinto, 2013) mi sembra evidente quanto siano importanti i tuoi genitori. Che famiglia è stata la tua?
Dal lato paterno la mia famiglia proviene da Modena e Milano. Mia nonna, Margherita Donati, era cugina di personalità illustri come Donato Donati, luminare di diritto pubblico a Padova, e Mario Donati, chirurgo di fama e preside della facoltà di medicina di Milano. Era una famiglia molto laica, piuttosto lontana dall’ebraismo praticante. Mia madre, Ilse Klein, invece proviene da una famiglia ebraica tedesca; nel 1933, a 20 anni, ha dovuto lasciare Colonia per Parigi, per sottrarsi alle prime persecuzioni naziste. È stato lì che ha incontrato mio padre, che lavorava in Francia per la Ras (Riunione Adriatica di Sicurtà, n.d.a.), anche quella una tradizione di famiglia. Anche la famiglia di mia madre era laica, direi assimilata, salvo che mia madre è stata sempre più attenta di mio padre alle tradizioni. Mia moglie infine proviene da una famiglia askenazita dell’Argentina, ebraicamente più tradizionale; in famiglia si parlava yiddish.
Tuo padre è scomparso che eri poco più di un ragazzo.
Avevo 23 anni, ero il primo di quattro fratelli, con gli altri minorenni, perché a quel tempo la maggiore età si otteneva a 21 anni. Mio padre (Piero Sacerdoti, direttore generale della Ras, n.d.a.) non ci ha lasciato con problemi economici, però la sua perdita si è avvertita molto. Era un uomo che ci ha dato sempre molti esempi, molto impegnato nel lavoro, nella vita civile, nella professione, nell’università. Penso che sia rimasto per noi sempre un esempio da coltivare. L’unica cosa diversa è che io, a differenza sua, mi sono occupato di ebraismo; probabilmente questo deriva da mia madre, sai lei ha perso nella Shoah tutta la famiglia, rimasta a Colonia.
Che ebraismo si viveva in casa tua da giovane?
Mio padre come ti ho detto era molto laico. Per esempio era contrario a mandarci a scuola ebraica, e così siamo stati al Parini; però avevamo una maestra di ebraico. Inoltre frequentavamo il giro di amici ebrei, e così mi sono avvicinato al movimento giovanile ebraico, alla Fgei, e da allora ho sempre coltivato un aspetto sociale e politico, ossia mi sono occupato di temi ebraici già da studente, e ancora non ho finito. Per fare una battuta, credo che di me si possa dire, mutata mutandis, la stessa cosa che su Berlinguer: si iscrisse in giovate età al comitato centrale del PCI. Io a 27 anni ero già nel consiglio della comunità di Milano, come primo dei non eletti, subentrato a Massimo Della Pergola, che aveva rinunciato. Inoltre fui delegato al congresso straordinario dell’Unione delle comunità israelitiche del 1968; insomma, mi sono sempre occupato di organizzazioni ebraiche italiane, soprattutto in campo legale e internazionale, accompagnando le nostre istituzioni, grazie anche al fatto che conoscevo bene più di una lingua.
Tu vanti una lunghissima esperienza in campo internazionale, come avvocato, giurista, giudice di organismi pattizi. Avendo fatto parte di organizzazioni internazionali per la libertà degli scambi commerciali, come giudichi la guerra in Ucraina? Che impatto avrà sulle relazioni internazionali nel medio termine?
Buona domanda. La fine della guerra, ora, è un po’ difficile da prevedere. Bisognerebbe capire il progetto di Putin, almeno quello che aveva quando ha iniziato, invece tutto resta molto fumoso, e c’è l’impressione di una grande faciloneria: guarda il boomerang della Finlandia nella Nato, per cui ora la Russia rischia di trovarsi con l’esercito americano a Helsinki, a pochi km da san Pietroburgo. Putin ha sottovalutato la Nato, avrebbe dovuto chiedere di rafforzare lo status di neutralità dell’Ucraina, impegnando su questo il Patto atlantico. Inoltre c’è da valutare un aspetto del diritto internazionale, finora poco messo in luce.
Quale?
Una volta la guerra era considerata legittima. Prendi la guerra franco prussiana del 1870: i francesi perdono, cedono Alsazia e Lorena e pagano i danni, e poi per 50 anni c’è la pace. Oggi, al contrario, il principio di diritto internazionale ci dice che la guerra d’annessione è inammissibile, che i confini non possono cambiarsi con la forza, e quindi l’Ucraina legittimamente può rifiutarsi di cedere il Dombass e anche di riconoscere la perdita della Crimea. Questo principio è importante, pensa altrimenti a cosa potrebbe succedere ai rapporti tra Pakistan e India e tra tanti altri paesi in potenziale conflitto. Però, è anche vero che sul campo la realtà è diversa, e chi conquista non molla, così la Crimea, Cipro del nord, il Sahara ex-spagnolo annesso dal Marocco, o, se vuoi, anche Gerusalemme est. In altre parole, nel mondo oggi ci sono situazioni di fatto molto diverse da quelle legali, il che complica le relazioni internazionali. E così chissà se Mariupol tornerà mai all’Ucraina. Chi invoca la pace oggi subito forse non si rende conto che questo non è nell’interesse dei contendenti, che sperano uno di conquistare più terra, e l’altro, al contrario, di recuperarla.
In tanti anni di “esercizio del diritto”, hai mai riflettuto se c’è un approccio ebraico al diritto?
Mah, spesso si discute di questo, ossia se gli ebrei siano particolarmente portati o sensibili al diritto. Non so se in pratica ciò sia esatto. Certo, la Torah è anche un codice di vita e la Halakhà regolamenta anche rapporti civili e persino commerciali, ben oltre quella che noi chiameremmo “sfera religiosa”. Forse c’è un maggiore interesse ebraico per il bilanciamento dei diritti, per vedere le cose dal punto di vista dell’altra parte, a cercare la giustizia, come prescrive la Torah, anche attraverso soluzioni di compromesso; forse c’è una più ampia apertura mentale, almeno nel contesto italiano, dove l’ebreo ha avuto un approccio multiculturale che gli italiani, in media, soprattutto in passato non avevano. Però devo anche dirti che osservando i miei colleghi avvocati non ebrei non mi sembra che si muovano professionalmente in modo diverso da come mi muovo io.
Come mai oggi non ci sono molti giuristi ebrei italiani, intendo in campo accademico e internazionale?
In effetti nell’università non siamo molti. In passato la presenza ebraica nell’Italia che contava era ben più forte. A Padova a fine ’800 era ebreo il senatore locale, il sindaco, e mi pare anche il rettore. Penso sia stato l’effetto delle persecuzioni e della guerra. Guarda quanti docenti ebrei, anche giovani promettenti, sono stati espulsi nel ’38, le loro carriere tagliate. Molti sono andati all’estero, hanno fatto altro. Le persecuzioni, le emigrazioni e le conversioni che ne sono state ulteriore conseguenza hanno determinato questa situazione.
Vorrei parlare anche del tuo impegno nel mondo ebraico italiano, già evocato. Cominciamo dal CDEC, il Centro ebraico di cultura contemporanea, di cui oggi sei presidente.
Sono “finito” lì fin da giovane, perché sapendo il tedesco tradussi i documenti richiesti dalla Germania Ovest nei processi contro i crimini nazisti in Italia. Poi, siccome sono sempre stato aperto all’impegno sociale, sono entrato nel consiglio, come giovane avvocato. In effetti il tema della memoria mi è sempre stato caro, anche per le vicende familiari di mia madre, e così avverto la necessità del mantenimento della memoria della shoah, la lotta al negazionismo, quella contro ogni discriminazione; insomma, alla fine mi sono trovato dentro il CDEC, prima da vice e poi da presidente. Ci tengo a dire che sono un presidente esecutivo, perché i direttori, prima Michele Sarfatti e ora Gadi Luzzatto Voghera, sono ottimi intellettuali e storici di valore, ma la parte amministrativa a finanziaria del Centro è stata sempre di mia (non facile) responsabilità.
Che giudizio dai sulla penalizzazione del negazionismo?
La penalizzazione andava introdotta da tempo in base a una direttiva europea del 2008. In Italia abbiamo atteso molto, e poi abbiamo introdotto la figura della circostanza aggravante, ma non del reato autonomo. So che alcuni si sono lamentati, e che oggi vorrebbero la fattispecie autonoma del reato di negazionismo, ma a me sembra che la circostanza aggravante cominci a essere applicata dai giudici con buoni risultati, anche se certo essendo una fattispecie di pericolo concreto, questo rende più difficile la sua contestazione.
Che percezione hai dell’antisemitismo, oggi?
Io non sono mai stato discriminato, e, in generale, non mi pare che in Italia gli ebrei trovino ostacoli nelle loro relazioni, sul lavoro o a fare carriera. Ci mancherebbe! Certo ci sono pregiudizi, specie in certe fasce sociali, spesso dettati da ignoranza. Però i dati del CDEC indicano che contro immigrati e islamici i pregiudizi oggi sono molto maggiori. C’è al riguardo una ignoranza pazzesca. Questo zoccolo di pregiudizi è anche contro le donne. Quanto a noi, da tanti anni vedo sempre un allarme, però non riscontro per fortuna una vera crescita dell’antisemitismo (ma neppure la sua scomparsa). Certo bisogna sempre vigilare e contrastare ogni forma di odio, soprattutto sui social.
Vengo ora a un tema di stretta attualità, anzi d’urgenza. Che giudizio dai sul d.l. 36 del 2022, che ha costituito un nuovo fondo per risarcire i cittadini italiani che tra il 1939 e il 1945 hanno subito crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Germania, purché agiscano in giudizio entro il 30 maggio?
Una risposta
Molto interessante e chiaro, grazie del continuo impegno