Tre ordini di lacrime
Nel tempo che da Rosh ha Shanà porta a Kippur cosa ci insegnano i maestri sul nostro lutto e quello dei nostri nemici?
In questi “giorni terribili” (yamim noraim), sia in quanto periodo liturgico sia in quanto tragico momento della vita di Israele e dell’intero popolo ebraico, ci è di conforto lo stare insieme, l’essere uniti come comunità nell’osservanza delle festività e nell’ascolto della Torà e dei maestri, i rabbanim. A volte anche i maestri, per loro stessa ammissione, faticano a trovare le parole giuste e hanno, come tutti noi, più domande che risposte per orientarci in quel che sta succedendo. Le risposte sono difficili perché difficile è tenere insieme i diversi piani con cui dobbiamo leggere gli eventi della storia. C’è il piano “naturale”, ad esempio delle vittorie o delle sconfitte militari, cui sono connesse la politica e le strategie ovvero gli obiettivi che le azioni militari hanno (o dovrebbero avere). C’è il piano “culturale”, o se si preferisce etico e valoriale, per cui anche le guerre, in quanto eventi umani, vanno valutate alla luce della Torà, con il metro delle regole e di una gerarchia dei valori, come insegna il capitolo 20 di Devarim/Deuteronomio (le misure morali sono dette middot e sono elaborate dall’halakhà, che si occupa di tutti gli aspetti dell’esistenza umana, individuale e collettiva, dunque anche della guerra e del leader che la conduce). Infine c’è il piano “religioso”, della fede, nello sguardo di chi sa che esiste un melekh ha-‘olam, il Sovrano dell’universo, che veglia e non sonnecchia. A Rosh ha-shanà ripetiamo quest’atto di fiducia: il mondo ha un Padrone che veglia, anche se è in preda alle fiamme (secondo un ben noto midrash).
Nella derashà del primo giorno di Rosh ha-shanà il rabbino capo di Roma ha ricordato che la mitzwà del giorno, detto yom teru‘à o giorno del suono, è l’ascolto dello shofar, e che il suono dello shofar, tra i molti significati che i maestri indicano e spiegano, ha anche quello di sembrare un pianto. Il targum Onqelos traduce teru‘à con yevavà, pianto o gemito. E in effetti le diverse modalità di suonare, cioè di insufflare lo shofar, possono ricordare diversi tipi di pianto: quello forte e prolungato, ma anche quello sommesso a singhiozzo. Ora, in questi terribili giorni di guerra abbiamo tutti, almeno spiritualmente, emesso gemiti: di rabbia e di frustrazione, di dolore e di angoscia per quel che succede all’am Israel nello stato di Israele attaccato dai suoi nemici su tutti i fronti. Chiamerei naturale e doveroso questo primo ordine di lacrime: oltre le vittime del 7 ottobre, quanti giovani soldati di Tzahal hanno già dato la vita per la difesa di Israele, in ossequio all’amore per la terra di Israele e per la gente che la abita? Questi soldati sono eroi nel senso più naturale, nobile del termine. Piangerli e onorarli, ascoltando lo shofar, è inserirli nella lunga storia di dolore di Israele e sperare che la loro morte sia per la vita di Israele, la vita piena e non solo per la sopravvivenza. Il primo pianto è per i nostri morti, e fa eco al gemito di Sara quando vide tornare dal Morià il solo Avraham, senza Isacco, e capì, e ne morì. È il pianto di cui parla il profeta Yermyahu, il lamento amaro di Rachel che “piange i suoi figli ma non vuole essere consolata…” (cfr. Geremia 31,15). Chi avrà la chutzpà di proferire consolazioni meramente retoriche?
Ma esiste un secondo ordine di gemiti, che il nostro rav rashì ha ricordato, perché è fissato dalla tradizione talmudica (in Bavli, Rosh ha-shanà 33b): la parola gemito, yevavà, è la stessa che la Torà usa per la madre di Siserà, il quale era uscito in guerra contro le tribù di Israele al tempo della profetessa e giudice Debora e che venne ucciso da Ya’el. Leggiamo in Shoftim 5,28 che la madre di Siserà aspettava alla finestra di vedere il figlio tornare, ma gemeva (almeno, questa è una possibile traduzione di un verbo ebraico incerto) perché non lo vedeva. Ora, di tutte le potenziali esemplificazioni, perché citare il pianto della madre del capo dei nostri nemici? È come se il Talmud citasse, oggi, la madre di Nasrallah o di Haniyeh! Mettersi nei panni del dolore altrui, e segnatamente quello di una madre, qui senza nome, ossia di ogni madre orbata di figli in guerra… saper riconoscere anche il pianto di chi ci odia, è la lezione morale che viene dai maestri. L’etica ebraica non si compiace della morte del nemico, che siano i primogeniti (innocenti) degli egiziani (colpevoli) o un nemico dichiarato come Siserà, giustiziato con coraggio da Ya’el. L’ordine naturale della guerra non sopprime l’ordine culturale (e universale) di una moralità nella quale il dolore è tale in quanto umano. È dolore senza aggettivi e senza bandiere. D’altro canto, è vero anche che l’ordine etico non annulla le differenze storiche e le ragioni politiche per cui si è costretti a fare una guerra. Aver ricordato tutto ciò, a Rosh ha-shanà e nel Tempio maggiore di Roma, fa la differenza tra la cultura ebraica e molte altre che non sanno distinguere e discernere nella complessità degli affari umani.
Infine, sebbene forse solo per pochi, esiste un terzo ordine di gemiti e di lacrime. È sempre la tradizione rabbinica ad insegnarlo, nella Mekhiltà e in Ekhà rabbà: davanti alle tragedie di Israele, anche Dio geme ma lo fa di nascosto, negli anfratti del mondo, e geme con un gemito simile non solo al suono dello shofar ma anche al tubare della colomba e al ruggito del leone. Il Dio di Israele conosce il dolore dell’essere umano e lo condivide. Anche Dio versa lacrime. Questa è una metafora dell’ebraismo, ci insegnano i maestri/le maestre (si pensi ad Avraham Joshua Heschel e Catherine Chalier), non del cristianesimo (che di tale pathos divino ha fatto la cifra del proprio messia). Non diciamo forse in queste ore: Adonai be-qol shofar (cfr. Tehillim/Salmi 47,6)? Cerchiamo allora di non dimenticare né di opporre tra loro questi tre “ordini di lacrime” nei giorni di lotta e di lutto che ancora ci attendono, e soprattutto non perdiamo la tiqvà, la speranza, nonostante tutto.