Shavuot: Israele tra scelta particolare e vocazione universale
La festa della Torà ricorda il legame tra Israele e il divino, ma non esclude una vocazione universale che offre un insegnamento al resto dell’umanità, come molti commenti di maestri ci mostrano
La Torà è stata data al popolo di Israele, sul monte Sinai.
Consegnata a un solo popolo, ma volutamente in un luogo che non appartiene a nessuno, ossia potenzialmente accessibile a tutti. Un noto midrash risolve questa tensione fra particolarismo e universalismo esprimendo una condanna per gli altri popoli: partendo dal versetto della Torà “Il Signore è venuto dal Sinai, da Seìr splendette per loro, apparve dal monte di Paràn…” (Deut. 33:2), il midrash deduce infatti che il Signore abbia chiesto agli altri popoli la disponibilità a ricevere la Torà, prima di consegnarla al popolo di Israele. Tuttavia, ogni popolo la rifiutò, ritenendo impossibile rispettarla.
Con una tecnica tipica che richiama altri versetti della Torà a riprova, il midrash riporta alcuni esempi che sono suggeriti dal passo citato. Dapprima (i discendenti di) Esaù, la cui essenza è basata sulla spada e quindi non è compatibile con il “Non uccidere”; poi Ammonei e Moabiti che secondo la narrazione biblica originano da un incesto e quindi non possono far loro il “Non commettere adulterio”; infine (i discendenti di) Yishmaèl, che per indole non può accettare il “Non rubare”. La conclusione è tuttavia generalizzata: “E così fece con ogni nazione, e siccome tutte rifiutarono, suscitarono l’ira del Signore”.
Non solo, il midrash prosegue affermando che le nazioni del mondo rinnegarono perfino i precetti noachidi, dunque quelle che possono considerarsi leggi universali. Secondo la versione ancora più drammatica dello stesso midrash come elaborato nel Talmud Babilonese (Avodà Zarà 2b-3b), tale condanna è destinata a rimanere fino alla fine dei giorni. Il Talmud ritrae una scena che si svolge alla fine dei tempi, nella quale i popoli protestano per il fatto di non aver ricevuto la Torà, o forse per non essere stati obbligati ad accettarla come avvenuto per il popolo di Israele, ma le loro argomentazioni non risultano sincere e vengono quindi respinte.
È evidente la finalità del midrash di rivendicare l’esclusività del patto con il Signore. Nella versione del Talmud viene infatti sottolineato come il popolo di Israele sia sempre stato disposto perfino a sacrificare la propria vita in nome della Torà, un attaccamento che gli altri popoli non dimostrano affatto. L’immagine che scaturisce da questo midrash è tremenda: il popolo di Israele è isolato, il resto del mondo è dall’altra parte e gli rivolge accuse (o le rivolge al Signore). Drammaticamente attuale.
Altre linee interpretative risolvono in modo differente la dualità particolare/universale. Rav J. D. Soloveitchik individua un duplice livello di impegno per il popolo di Israele: quello universale di promuovere la dignità umana e quello particolare di salvaguardare la sacralità del patto con il Signore.
Alcuni Maestri cercano perfino di armonizzare i due aspetti. Così, ad esempio, rav S. R. Hirsch vede nel popolo di Israele gli affidatari di una missione. Egli commenta che «Una “nazione santa” significa che proprio come individualmente ogni ebreo deve apparire come un sacerdote, così Israele come nazione ha il compito di far sì che il mondo sia un mondo di santità davanti a Dio. Deve essere una nazione unica tra le nazioni, una nazione che non esiste per la propria fama, la propria grandezza, la propria gloria, ma per il fondamento e la glorificazione del Regno di Dio sulla Terra, una nazione che non deve cercare la sua grandezza nel potere e nella forza, ma nell’assoluto della Legge Divina, la Torà, perché questa è la santità». Quella di rav Hirsch è una elaborazione di un concetto che si ritrova già nelle fonti classiche, con sfumature differenti: un proporsi attivamente come diffusori, istruttori dell’umanità (così ad es. Sforno, commentatore italiano vissuto a cavallo del 1500); oppure il costituire un esempio al quale altri possano ispirarsi (così ad es. rav Avrahàm figlio del Rambàm, vissuto in Egitto nel XIII sec.).
Rav J. Sacks sviluppa un concetto di “dignità della differenza”: «Solo una fede che riconosce entrambi i tipi di alleanza – quella universale e quella particolare – è capace di comprendere che l’immagine di Dio può essere presente in colui la cui fede non è la mia e il cui rapporto con Dio è diverso dal mio».
Tornando al midrash iniziale, occorre analizzare quali siano le accuse rivolte agli altri popoli. Il midrash richiama il fatto che il popolo di Israele abbia accettato a priori, in un atto di fiducia completa, qualsiasi condizione. In particolare, quindi, dà come presupposto che abbia accettato quelle regole che gli altri popoli avevano ritenuto impossibile mettere in pratica: il divieto di uccidere, di avere rapporti sessuali illeciti, di rubare.
Sono dunque queste caratteristiche i tratti distintivi del popolo ebraico, evidentemente soprattutto nel modo in cui questo è percepito all’esterno. Non dimentichiamo infatti che il contesto è quello della diatriba immaginaria fra il Signore e i popoli del mondo sul perché proprio il popolo di Israele sia stato scelto! In questo senso, il midràsh non è poi così distante dalle altre linee interpretative riportate. Un monito, un invito, a ricordare sempre che in ogni atto del nostro vivere quotidiano, individuale e collettivo, siamo in realtà esponenti della “congrega di Israele”, e siamo chiamati a quella che si definisce “santificazione del Nome divino”.
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