Rav Alfonso Arbib, 63 anni, giunto in Italia da Tripoli all’età di 9, è rabbino capo di Milano, la seconda comunità ebraica italiana per grandezza.
“Riflessi” lo ha intervistato in occasione dell’avvio di un viaggio che vuole dialogare con il rabbinato italiano in un tempo di incertezze e cambiamento e alla vigilia del rinnovo dell’Ucei, al fine di individuare opportunità, problemi e possibili soluzioni che interrogano l’ebraismo italiano oggi.
Rav Arbib, lei guida da alcuni anni la seconda comunità ebraica italiana, in ordine di grandezza. Può descriverci, in breve, la comunità di Milano?
Quella milanese è una realtà relativamente giovane rispetto alle altre comunità italiane. A Milano vivono, più o meno, tra i 6.000 e 7.000 ebrei. È una comunità che descriverei “in movimento”. Com’è noto al suo interno vi sono vari gruppi, di origine geografica diverse e con tradizioni precise, come gli ebrei persiani, libanesi, tripolini, egiziani e turchi, oltre ovviamente agli italiani. Queste identità sono così marcate che a Milano esistono scuole diverse e alcuni di questi gruppi si raccolgono attorno ai loro battè Knesset e ai loro luoghi di studio. A Milano sono presenti, oltre agli ebrei ashkenaziti, anche i Lubavitch che, come si sa, si caratterizzano per una loro autonomia dovunque operano. Direi insomma che la comunità di Milano è soprattutto una comunità dinamica, in cui tutto sommato si collabora, con una prospettiva e una vocazione europea e internazionale. Qui si vivono molte opportunità, date dal confronto continuo, e qualche rischio, come quello della eccessiva frammentazione. Da questo punto di vista la scuola ebraica, dove bene o male alla fine affluiscono le nuove generazioni, è il luogo di maggiore aggregazione.
In una realtà così complessa, come è riuscito a inserirsi, lei che arrivava da Roma?
La realtà milanese può essere davvero compresa solo vivendoci, e praticando l’ascolto quotidiano. Quando sono arrivato, nel 1985, è questo che ho fatto: ho ascoltato le varie realtà ed esigenze, cercando di comprendere i diversi punti di vista. Direi che, più che la mediazione, ho sempre praticato il dialogo. Non si può infatti trovare una soluzione soddisfacente per tutti se, prima ancora, non ci si è messi in ascolto degli altri.
Da quasi 5 anni Lei è anche a capo dell’ARI, l’assemblea dei rabbini italiani. Può spiegare ai lettori di “Riflessi” di cosa si occupa l’ARI?
L’ARI è innanzitutto un luogo in cui i rabbanim possono dialogare e confrontarsi. Ciò è molto importante, perché essere rabbino in una grande comunità è cosa completamente diversa che esserlo in una media, o in una piccola. È importante allora potersi parlare. Il nostro compito, a livello più istituzionale, è inoltre quello di indicare le linee guida all’ebraismo italiano in tema di Halakhà; è per questo che 3 rabbini siedono nel Consiglio dell’Ucei, scelti da questo tra una rosa di 5 proposta dall’ARI stessa.
Due anni fa lei ha ricevuto il prestigioso premio della Fondazione Katz di Gerusalemme, concesso a chi si occupa “di combinare il mondo moderno con il mondo della Halakha”. In precedenza, tra gli altri, sono stati premiati rav Adin Steinsaltz, z’l’, e rav Jonathan Sacks, z’l’. A suo avviso questo è anche un riconoscimento per il rabbinato italiano? In generale, qual è, a suo avviso, il contributo dei maestri italiani oggi allo studio della Torà in un mondo sempre più connesso?
Sicuramente è un riconoscimento all’ebraismo italiano e più in generale all’ebraismo della Diaspora. L’ebraismo italiano è spesso stato visto, da parte del resto del mondo ebraico, in due modi contrapposti. Per un verso siamo i depositari di una tradizione e una saggezza di primo livello. Infatti molti maestri italiani sono nati e hanno insegnato nella penisola per secoli, e le loro opere sono ancora oggi studiate in tutto il mondo ebraico. Dall’altra parte, tuttavia, la consistenza numerica e la decadenza che a un certo punto è intervenuta negli studi ebraici almeno in parte delle comunità italiane (pur con importanti eccezioni), ci hanno fatto considerare una realtà poco significativa; insomma, eravamo visti come una realtà marginale tutto sommato provinciale con un passato glorioso alle spalle.
Credo che la situazione stia cambiando e per fortuna oggi ci sono molte opportunità di studio. Vorrei ricordare che conservare e rafforzare lo studio è uno dei fondamenti per conservare delle forti comunità ebraiche. Anche i rapporti con l’estero, oggi continui – nonostante la pausa imposta dalla pandemia – sono un’opportunità di miglioramento. Tuttavia, essi portano anche un rischio: che i nostri giovani trovino più attraente vivere all’estero che in Italia.
Ha fatto cenno ora al Covid. Negli ultimi quindici mesi anche gli ebrei italiani hanno sofferto duramente gli effetti della pandemia; Milano, in particolare, è stata la prima comunità a essere gravemente colpita. L’opinione pubblica si è affidata soprattutto alla scienza. Eppure c’è una domanda sottotraccia, cui, forse, non possiamo sottrarci. Come Rav, cioè uomo di studi e di fede, qual è la riflessione che le ha suggerito questo tempo così eccezionale?
Credo che dobbiamo ancora fare i conti con il periodo che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere. Siamo ancora troppo dentro perché possa esserci una riflessione distaccata. Posso solo dare alcune impressioni.
È stato un periodo in cui abbiamo vissuto molto poco la comunità siamo rimasti chiusi in casa e abbiamo vissuto isolati. Da una parte questo ci ha fatto sentire l’assoluta necessità di vivere insieme, ci ha fatto capire che la vita comunitaria è un bene prezioso. D’altra parte abbiamo scoperto altre forme di comunicazione ed è avvenuto anche per chi come me aveva poca confidenza con quelle forme di comunicazione. Durante il periodo del lockdown ho fatto lezione quotidianamente via zoom o Facebook ed è stata una scoperta importante anche per il numero sorprendente di persone che seguiva queste lezioni. Ovviamente non è stata soltanto una mia scoperta ma è un’esperienza di molti.
La domanda su cosa tutto questo ci insegni è ovviamente importante, ci insegna che nella nostra vita ci sono priorità e che non necessariamente ciò che consideravamo prioritario prima lo fosse. Ci insegna che viviamo in un mondo di cui non abbiamo il controllo anche se ci eravamo illusi del contrario. È un bagno di umiltà di cui credo avessimo bisogno. Ma credo soprattutto che sia assolutamente vero ciò che dice Rav Soloveitcik: Dio manda dei messaggi e ognuno può capire il messaggio mandato a lui personalmente e non necessariamente il messaggio generale.
Vorrei ora dialogare con lei sul futuro dell’ebraismo italiano. L’Italia, si sa, non è un paese per giovani. Dal suo punto di osservazione che prospettive hanno le giovani generazioni di ebrei italiani?
È evidente che l’ebraismo italiano ha un forte problema: quello di crescere le giovani generazioni. In effetti, sono preoccupato. Viviamo infatti il rischio di un doppio allontanamento: quello dei giovani che vanno all’estero, e quello dei giovani che si allontanano dalla comunità. La disaffezione è una minaccia concreta. A mio avviso, ci sono vari modi per contrastare questi rischi. È innanzitutto fondamentale migliorare le nostre scuole: elevare ancora di più l’offerta formativa e la qualità degli insegnanti (non solo quelli di cultura ebraica), perché come sappiamo sono i buoni maestri quelli che formano i giovani all’inizio del loro percorso evolutivo. Mi aspetto però che anche i giovani facciano la loro parte: c’è bisogno cioè che chiedano spazio e si assumano le loro responsabilità. Insomma, credo che oggi più che mai sia importante che i giovani si impegnino nella nuova leadership comunitaria.
Uno dei temi su cui l’ebraismo si confronta da anni è quello delle coppie miste, soprattutto perché siamo una comunità con numeri molto piccoli. Periodicamente i rabbini sono difesi e criticati riguardo al ghiur. Può indicarci la sua posizione?
Io credo che le nostre comunità debbano essere sempre e costantemente rivolte al dialogo e all’accoglienza di tutti. È fondamentale, l’avverto come un dovere. Detto questo, ritengo anche che l’accoglienza non possa portare a un esito obbligato, quello del ghiur. È evidente infatti che un percorso di ghiur debba essere affrontato nella prospettiva di arrivare a formare un’identità religiosa rispettosa dell’Halakhà: se questo, per tante ragioni, non è possibile, il ghiur non può esserci. Insomma, vanno separate le due questioni: il ghiur ha un percorso ben definito, il cui obiettivo è l’avvicinamento alla Torà e alle miztvòt. L’ascolto e il dialogo passa invece per molte altre strade: sociali e culturali, innanzitutto. Chi oggi si sente lontano dalla comunità, deve potersi sentire vicino a essa. Ritengo comunque che sia fondamentale per l’ebraismo italiano impegnarsi per aiutare la formazione di famiglie ebraiche.
Ha fatto più volte riferimento all’importanza di parlarsi e dialogare. È difficile oggi essere rabbino? Lei a volte vive il suo ruolo con difficoltà?
Se penso alla mia formazione personale, io mi sento innanzitutto un insegnante. Ho insegnato per tanti anni, e lo faccio ancora, e questa credo sia la mia vocazione. Come rabbino, invece, le competenze richieste sono ovviamente maggiori. Viviamo inoltre da tempo una grande esposizione, anche mediatica. A volte mi domando se ai rabbini non sia richiesto troppo, e se il nostro compito non debba essere più specifico. Forse anche noi rabbini abbiamo necessità di ripensare a un nuovo modello.
A proposito di leadership, prima auspicava un rinnovamento. In generale e senza entrare nei casi concreti, come giudica la leadership comunitaria oggi alla prova?
Certamente tutti coloro che sono chiamati a esercitare dei ruoli di responsabilità nel mondo ebraico lo fanno al meglio delle loro possibilità; talvolta, però, ho la sensazione che il loro meglio non sia ancora sufficiente.
A breve l’Ucei rinnoverà i suoi organi. A suo avviso, su quali problemi dovrà confrontarsi nel prossimo quadriennio?
I problemi e le difficoltà sono molti. C’è innanzitutto il fondamentale tema educativo, la solidarietà per chi è in difficoltà, (problema aumentato notevolmente con la pandemia), l’impegno per i giovani e per le famiglie credo sia necessaria a questo proposito provare a pensare in modo diverso dal passato e a progetti innovativi.
Ovviamente l’Ucei ha un ruolo fondamentale nei rapporti con lo Stato e nella lotta al risorgente e preoccupante antisemitismo.
C’è anche una questione di fondi e risorse, fondamentali per sostenere le comunità e promuovere progetti di inclusione e sostegno. Certo sarebbe utile potere intercettare ancora di più le forme di finanziamento che provengono dall’estero, riuscendo, al tempo stesso, a mantenere la nostra autonomia.
Per concludere, può indicarmi tre priorità per l’ebraismo di domani?
I nostri giovani, la loro educazione, le nostre famiglie, la solidarietà e il sostegno a chi è in difficoltà.