“Rapito”: così ho interpretato la resistenza al male
Barbara Ronchi è Marianna Padovani nell’ultimo film di Marco Bellocchio. A Riflessi racconta cosa è significato interpretare un’ebrea che non si arrende alla violenza del potere
Barbara Ronchi, è stato difficile calarsi in un film storico come “Rapito”, dentro una comunità molto minoritaria del paese come quella ebraica?
Per prepararci al film e durante le riprese – che ci hanno occupato per circa 12 settimane, dalla fine di giugno alla fine di settembre nel 2022 – siamo stati aiutati da un consulente (Daniel Del Monte, n.d.r.) costantemente al nostro fianco. Inoltre le comunità di Roma, Bologna e Torino ci hanno accolto con molta amicizia e familiarità, aprendoci le loro porte anche in occasione di un bar mitzvà. Per noi tutto questo è stato fondamentale, perché la condivisione di quei momenti ci ha permesso di comprendere molte cose che poi ci sono servite durante le riprese, come ad esempio la pronuncia delle preghiere. Le scene in cui la famiglia Mortara si riunisce nell’intimità familiare per recitare le preghiere alla sera è stato infatti per noi un momento di grande unione. Seppure concentrate in pochi momenti, quelle scene ci hanno fatto calare interamente nella parte e ci hanno fatto comprendere il cuore della storia, la cosa più importante, ciò che differenziava la famiglia Mortara e la comunità ebraica dal resto della società.
Conosceva qualcosa della cultura e del mondo ebraico prima del film?
Nessun attore che partecipa al film è ebreo. Posso dire che nessuno di noi, prima delle riprese, conosceva nulla della religione ebraica. Grazie al film ci siamo però immersi totalmente in questo mondo.
Lei interpreta il ruolo di Marianna Padovani, la madre di Edgardo Mortara. È stato difficile entrare nella parte?
In generale, ogni attore si trova prima o poi nella necessità di mettere una distanza fra sé e il personaggio che interpreta, soprattutto quando non ne condivide la figura. Paolo Pierobon [l’attore che interpreta Pio IX, n.d.r.] dice ad esempio che per poter interpretare il Papa Re ha dovuto attingere alla parte più ottusa di sé, perché altrimenti non avrebbe potuto comprendere tanta durezza e intransigenza come quella mostrata nei confronti del caso Mortara. Al contrario, per quanto riguarda noi che interpretavamo la famiglia Mortara, posso dire che ci siamo completamente immersi in quel mondo, e ci siamo innamorati di quella cultura. È stato bellissimo entrare in una società completamente diversa dalla nostra, ma al tempo stesso è stato anche molto duro e molto toccante raccontare quella storia. Per quanto mi riguarda, ho dovuto a un certo punto cercare di mettere un limite al dolore che avrei altrimenti provato, pensando ad esempio a mio figlio, perché una totale identificazione fra me e mio figlio e Marianna Padovani ed Edgardo sarebbe stata troppo dolorosa. Ho dovuto quindi forzare il mio cuore, pur senza tirarmi indietro in questa prova.
Lei ha una preparazione universitaria di tipo storico. I suoi studi l’hanno aiutata nel calarsi nel personaggio?
All’inizio mi sono molto affidata al nostro consulente, perché come le ho detto non sapevo bene da dove partire, ed è stato quindi importante avere una persona di cui potersi fidare, per non creare differenze e storture rispetto ai personaggi storici che interpretavamo. Per quanto riguarda il mio ruolo, mi sono preparata sulla figura di Marianna Padovani anche grazie a delle fonti iconografiche. In particolare, c’è una foto che ritrae Marianna in tarda età tra i figli Riccardo, il maggiore, ed Edgardo, il primo in abiti civili, il secondo vestito da sacerdote. Marianna nell’immagine ha una postura quasi spezzata, eppure tiene la testa dritta. Ecco, sono partita da questa foto per immaginarmi il dolore, ma anche la dignità e la fierezza di questa donna.
La scena iniziale del film è anche a mio avviso una delle più crudeli: le guardie che entrano in casa di notte, l’assenza del marito, e poi il confronto tra l’imbarazzo del maresciallo e la paura della madre. Il potere sembra voglia schiacciare tutti, chi lo subisce ma anche chi lo impersona. Trovo che questo film sia una narrazione sul potere. Che impressione ne ha ricavato lei?
La prima cosa che succede quando entrano i gendarmi in casa Mortara e che l’intimità della famiglia viene completamente cancellata. Tutto questo è chiaro quando ad esempio i gendarmi seguono il bambino anche nel fare i bisogni, o si mettono in camera di letto a osservare i genitori e il piccolo Edgardo, pur sapendo che quella è l’ultima notte che passeranno assieme. Sono piccoli abusi di potere che fanno comprendere come la vicenda si evolverà. Quella di Edgardo Mortara è chiaramente una storia in cui accade qualcosa contro natura: allontanare un figlio dalla madre; è una prova di una violenza inaudita. Quello che Marco Bellocchio voleva mostrare, ad esempio osservando la reazione dei notabili della comunità di Bologna e di Roma, che appaiono subito preoccupati ma non stupiti, è che questo sopruso non era una novità assoluta, e che purtroppo già altre volte gli ebrei italiani l’avevano dovuto subire.
Vorrei che mi parlasse ancora di Marianna Padovani, una donna all’apparenza semplice, ma che si rileva in realtà subito molto forte.
La cosa che mi ha più colpito di lei è che non si rassegnerà mai, fino alla fine, alla violenza che le è stata fatta. La grande forza di questa famiglia è stata quella di riuscire a portare sul banco degli imputati l’inquisitore Pier Gaetano Feletti (l’attore Gaetano Gifuni, n.d.r.), ideatore del rapimento. Quello che il film vuole denunciare è che nonostante la violenza subita, Marianna non cede al ricatto, resta legata alla sua fede. Quando ad esempio lei afferma che ci vorrebbe Attila per reagire al sopruso subito mostra quanto sia forte il suo carattere. Questa sua dignità, questa sua forza nel non cedere e non rinnegare la propria identità mi ha molto commossa, e credo che sia ciò che rende epico il personaggio. Il marito forse a un certo punto si fa sfiorare dall’idea di una conversione pur di riavere suo figlio, ma lei capisce che con i carcerieri non è possibile scendere a patti e si opporrà sempre a una simile soluzione. Eppure, al tempo stesso resterà legata al figlio che le è stato portato via, come testimoniato dal lungo scambio di lettere che i due ebbero durante la loro vita.
Questa è anche una storia di resistenza, quella di Marianna, fin in punto di morte. A suo avviso in questa figura prevale più la donna, la madre o l’ebrea?
Nell’ultima scena di Marianna, in cui Edgardo torna a trovare la madre morente e prova ha battezzarla, possiamo pensare che egli sia mosso dalla paura di non poter ritrovare sua madre nell’aldilà, e voglia così compiere sulla madre quell’atto che la domestica fece su di lui, battezzandolo ancora neonato. Il punto è che la madre resiste e non cede a quella visione del mondo in cui ormai è entrato suo figlio. Quell’atto di resistenza in punto di morte significa che lei non ha mai ceduto, mentre il figlio è passato dall’altra parte. Naturalmente non mi sento di condannare Edgardo, perché dobbiamo ricordare che il rapimento lo riguarda quando è solo un bambino, e dunque non possiamo immaginare cosa sia successo nella sua mente, strappato dalla famiglia in maniera così violenta ed improvvisamente fatto entrare definitivamente in un altro mondo. Però la resistenza di Marianna credo sia quella di un intero popolo, ed è per questo che penso che la sua resistenza sia anche un atto politico.
Le donne nel film sono asservite al potere: occorre attendere il marito per procedere all’ispezione della casa, Marianna non è subito ammessa a parlare col figlio, né viene citata in tribunale come testimone contro l’inquisitore. C’è anche un tema del rapporto tra maschile e femminile che “Rapito” affronta?
In effetti Marianna non può far nulla in quanto donna; deve sottostare alle decisioni del marito e degli altri uomini che dispongono della sua vita e di quella di suo figlio. Eppure anche qui credo che lei abbia provato a ribellarsi. La mia idea è che quel tentativo di rapimento non andato in porto da parte del primogenito Riccardo sia stato in realtà suggerito proprio dalla madre. Al tempo stesso questo ci suggerisce che se le donne avessero avuto voce in capitolo nella storia, seguendo le leggi del cuore, essa avrebbe avuto certamente un esito diverso.
Lei ha girato film leggeri, commedie, fiction, film storici e drammatici. È complicato ogni volta entrare in una parte che richiede un repertorio così ampio?
Io credo che sia molto bello per un attore variare e spaziare attraverso i generi, ogni tanto girare una commedia è importante perché mi alleggerisce. Poi, naturalmente, è molto bello anche calarsi in personaggi dolorosi, perché per un attore credo non ci sia cosa più gratificante di quando lo spettatore percepisce di aver già visto quel volto sullo schermo, ma non sa ricordarsi dove, perché significa che la trasfigurazione realizzata nel passaggio da un film all’altro ha funzionato.
Lei è alla seconda prova con la regia di Marco Bellocchio: che si prova a recitare in un film del maestro?
Il mio primo film con Marco Bellocchio, “Fai bei sogni”, l’ho girato che ero soltanto una ragazza. Devo dire che all’inizio della mia carriera mi sarei augurata proprio questo, di incontrare un maestro come lui sul set. Ritrovarlo ora, in un ruolo così importante e complesso, è stato per me un altro momento di crescita, perché Marco Bellocchio durante le riprese è stato sempre dalla mia parte, seppur con molta discrezione. Con discrezione, ma anche con forza. E questo è quanto di più bello un attore si possa augurare.
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