Quattro voci per Israele

Al Pitigliani alcune sere fa incontro con alcuni ospiti israeliani. Ecco il resoconto della serata

qui e sotto: alcune immagini della serata

Qualche giorno fa, ovvero giovedì 5 settembre, serata intensa al Pitigliani. A partire dalle ore 21:00, si sono alternate al microfono le quattro voci di altrettanti ospiti israeliani. Due di questi, sono personaggi già molto noti nella Comunità ebraica di Roma. Stiamo parlando di Angelica Edna Calò Livne, israeliana di origine romana, e di suo marito, Yehuda Livne, entrambi residenti nel kibbutz Sasa, sito a pochi passi dal confine col Libano.

In questa occasione, Angelica e Yehuda accompagnavano due dirigenti di alto livello dell’Organizzazione Sionista Mondiale: Dror Morag e Gil Segal, entrambi esponenti dell’alleanza che, all’interno della OSM, lega due dei più noti partiti dell’opposizione israeliana. Il Meretz, partito sionista e socialista erede del Mapam, e Yesh Atid, il nuovo partito liberal-democratico guidato da Yair Lapid.

Titolo della serata: “Il segreto di Israele: non avere il privilegio di desistere”. Titolo impegnativo, come si è rapidamente compreso. Dopo i saluti introduttivi di Raffaele Sabbadini, che ha ricordato che il Pitigliani era lieto di ospitare l’incontro, prima tappa di una serie di iniziative analoghe in corso in giro per l’Europa, e di Yahal Linternari, il Segretario generale dell’organizzazione mondiale del movimento giovanile Hashomer-Hatzair, la parola è passata a Angelica Edna. La quale ha offerto ai presenti, raccolti nel salone del Centro, una descrizione molto viva dei mille problemi affrontati oggi dalla società israeliana. Una società composta da famiglie gran parte delle quali hanno figli o parenti che prestano servizio militare sul fronte di Gaza, o su quello settentrionale minacciato da Hizbollah. Ma ci sono poi anche famiglie come quelle di coloro che abitavano nei kibbutzim o nelle cittadine attaccate da Hamas o che (è questo il caso di Angelica e Yehuda) abitavano nei kibbutzim e nei villaggi posti lungo il confine col Libano. Famiglie i cui membri, o gran parte dei cui membri, vivono da mesi come sfollati, lontani dalle proprie abitazioni. Ad esempio, con uno dei genitori rimasto a guardia del proprio villaggio, e l’altro che sta vicino ai figli che non possono più frequentare la loro amata scuola e devono seguire le lezioni in nuovi contesti improvvisati ad hoc. Per non parlare dei bambini abitanti anche lontano dai confini e cui occorre spiegare perché, di quando in quando, suonino le sirene degli allarmi anti-missili. O dei ragazzi più grandicelli, cui occorre insegnare come comportarsi quando, in caso di allarme, ogni abitante di Israele ha a disposizione tempi brevissimi per mettersi al riparo.

Una società, però, anche molto resiliente, animata, come ha raccontato Yehuda Livne, da mille iniziative di solidarietà e di volontariato, sia in campo civile che militare.

E’ stata quindi la volta di Dror Morag. Dopo il 7 ottobre, ha spiegato che anche lui, che da sempre è favorevole alle iniziative di dialogo e di incontro volte a costruire un futuro di pace, ha pensato che la guerra contro Hamas era necessaria e giusta. Ma, col passare dei mesi, ha cominciato a nutrire dei dubbi sulla strategia militare e politica perseguita dal Governo guidato da Netanyahu. Distruggere Hamas? Va bene. Ma la sua impressione, così come quella di altri suoi compagni, è che il Governo abbia rinunciato a liberare gli ostaggi. Mentre l’etica delle forze armate israeliane è sempre stata quella secondo cui non si abbandonano i soldati sul campo di battaglia. E, quindi, il Governo non dovrebbe abbandonare gli ostaggi, anche a costo di impegnarsi in trattative molto complesse.

Da tutto ciò è derivata un’amara riflessione di Morag. Quella secondo cui, se non si farà in tempo a salvare gli ostaggi ancora in vita, in Israele si aprirà una spaccatura tale che sarà difficile da risanare per un tempo non breve. “Noi pensiamo”, ha detto Morag, che si debba fare un accordo “adesso”. Un accordo che consenta di riportare a casa i hatufim, ovvero gli ostaggi. Allo stesso tempo, Morag pensa che il movimento sionista debba impegnarsi per portare una nuova generazione di giovani a vivere nei kibbutzim che sono stati vittime degli attacchi di Hamas, lungo il confine con la Striscia di Gaza, o sono tutt’ora il bersaglio degli attacchi di Hizbollah, lungo il confine con il Libano.

Il microfono è poi passato a Gil Segal, ex Direttore della struttura della Knesset, il Parlamento israeliano, e attualmente Vicepresidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale. Anche lui è tornato a utilizzare la parola hatufim (ostaggi), una delle parole più spesso ricorrenti nell’intera serata. E anche lui ha sottolineato che il fatto che ci siano 100 ostaggi che non hanno ancora fatto ritorno a casa crea divisioni all’interno di Israele.

Secondo sondaggi citati da Segal, il 65% degli israeliani vorrebbero cambiare il capo del Governo. Un’opinione, questa, condivisa anche dal 45% di coloro che hanno votato per i partiti che hanno dato vita all’attuale maggioranza.

Quanto agli obiettivi ufficialmente perseguiti dal Governo israeliano in questa guerra, Segal ha sostenuto che, a suo avviso, Hamas non va considerato solo come un gruppo di individui. Per Segal, Hamas è un’idea, o, per dir meglio, un’ideologia politica, ed è dunque un qualcosa di difficile da distruggere.

il Kibbutz Sasa è nato negli anni settanta

Combattere Hamas, dunque, è necessario. Ma dandosi obiettivi chiari. E quindi, sempre secondo Segal, molti pensano, in Israele, che sarebbe bene arrivare a nuove elezioni nel più breve tempo possibile. Infatti, come ha detto Morag in un secondo intervento, adesso Netanyahu è “il nostro problema”. E ciò anche perché in Israele molti si chiedono: “Il 7 Ottobre, dov’era la Zavà?”. Cioè, dove era l’Esercito? Dove erano le Forze di difesa di Israele? Molti pensano, quindi, che ci siano delle responsabilità del Governo in ciò che è accaduto ormai 11 mesi fa. E che il capo del Governo debba cambiare. E’ questo ciò che chiedono le manifestazioni che, da settimane, si susseguono a Tel Aviv e in altre città israeliane.

A fine serata, dopo le domande fatte da un pubblico le cui preoccupazioni, già forti a 11 mesi dal 7 Ottobre, si erano forse aggravate ascoltando le crude ma lucide parole degli oratori israeliani, una prospettiva di speranza è venuta dal secondo intervento di Angelica Edna. La quale, innanzitutto, ha citato un recente documento sottoscritto da molti Imam sunniti che contiene parole sicuramente positive e, comunque, molto lontane da quelle reiterate dagli islamisti odiatori di Israele.

In secondo luogo, forte anche della sua esperienza di educatrice, Angelica Edna ha sostenuto che, per il futuro, occorrerà lavorare per cambiare radicalmente il tipo di educazione che, da molto tempo a questa parte, è stata impartita agli studenti Gazawi, fin dai loro primi anni di scuola. “Dobbiamo impegnarci per far sì che i libri di testo delle scuole palestinesi cambino radicalmente”, ha detto.

Angelica Edna Calo Livne a Sasa
Angelica Calò nel suo kibbutz, al tempo prima di questa guerra

Ovviamente, tutti sanno che non è Israele a decidere i contenuti dei percorsi educativi lungo cui vengono incanalati i giovani palestinesi. Ma, se ben comprendiamo, Angelica Edna pensa che, una volta sospeso il conflitto attualmente in corso, il terreno dell’educazione sarà uno dei terreni da privilegiare per costruire un futuro di convivenza e di reciproca comprensione.

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