Pesach, un legame eterno tra D.O e Israele
Cosa rende unico il legame tra D.O e il popolo d’Israele? E cosa comporta questo per gli ebrei, oggi? Alla vigilia degli ultimi gironi di festa, Riflessi pubblica un intervento di Rav Momigliano
“Baavur zeh asà H. li betzetì mimizraim” – Per quello che il Signore mi fece quando uscii dall’Egitto “ (Esodo 13,8). E’ questa una celebre frase della Torà, che ritroviamo con diversi significati nella Haggadà di Pesach; secondo Rashì dobbiamo intenderla in questo modo: – il Signore ha compiuto azioni straordinarie per farci uscire dall’Egitto proprio per darci l’opportunità di adempiere ai Suoi comandamenti – in altre parole il testo dichiara in maniera inequivocabile che D.O ci ha tratto dalla schiavitù affinché noi ci mettessimo al Suo servizio nell’adempimento delle Mizvot.
Il collegamento tra la liberazione dalla schiavitù e l’impegno a ricevere ed osservare i comandamenti è più volte affermato e ribadito nella Torà, basti ricordare la mizvà di contare i giorni tra Pesach e Shavuot – la Sefirat Ha’Omer – per sottolineare l’ideale percorso quotidiano tra l’uscita dall’Egitto e la Torà ricevuta al Monte Sinai e il fatto che gli stessi Dieci Comandamenti si aprono ricordando che Il Signore ci ha tratto dalla Terra d’Egitto dalla casa degli schiavi.
Tuttavia penso sia anche importante ricordare che, attraverso la liberazione dalla schiavitù, D.O stabilisce con Israele un legame profondo, particolarmente intenso e ricco di sfumature e di sentimenti, ed è proprio nel contesto di tutti i significati di questo legame che possiamo comprendere e sentire molto più intensamente l’impegno di osservare i Comandamenti.
Nel momento in cui Mosè si mostra disorientato di fronte all’apparente fallimento della sua missione presso il faraone, D.O gli rivolge le famose “Quattro espressioni di redenzione – gheulà” (Esodo 6,6-7) che ricordiamo nel corso del Seder di Pesach con i quattro bicchieri di vino; le prime tre sono promesse di libertà: “Vi farò uscire, vi salverò, vi libererò”, ma la quarta annuncia la condizione di identità che caratterizzerà da allora Israele “Vi prenderò come Mio popolo”.
Questa promessa definisce innanzitutto Israele come popolo, un definizione che per noi nel nostro tempo e nella nostra condizione di ebrei nella diaspora è essenziale ricordare perché affatto scontata, è necessario ricordare che D.O desidera che costituiamo un popolo. Il significato di questa affermazione: “Vi prenderò come Mio popolo” diviene chiaro nel messaggio che il Signore affida a Mosè rivolto ai figli d’Israele riuniti ai piedi del monte Sinai “Voi sarete per Me un reame di sacerdoti un popolo consacrato” (Esodo 19,6) Questo appello del Signore richiede un impegno che, come ha spiegato Shimshon Refael Hirsch, da un lato coinvolge ogni singolo ebreo individualmente, il che significa che ogni ebreo deve riconoscere l’autorità dell’Eterno, deve cercare di essere un esempio di vita che diffonde la conoscenza di D.O tra gli uomini, al tempo stesso si tratta di un impegno collettivo ,come spiega ancora Hirsch: “Dovrete essere un popolo speciale fra tutte le nazioni, un popolo che non vive per il proprio bene esclusivo ma per costituire la sovranità di D.O sulla terra, un popolo che non dovrà ricercare la propria grandezza attraverso l’uso della forza ma costituire come valore supremo la legge morale di D.O, poiché questo è il significato di “keddushà”.
Malgrado la vecchia definizione “italiano di religione ebraica” sia ormai considerata inadeguata per definire la nostra condizione identitaria quali membri di comunità ebraica, esitiamo tuttavia a riaffermare la nostra identità di popolo, forse ancora inconsapevolmente condizionati dal sospetto a lungo pesato sui nostri fratelli di aderire ad una sorta di doppia fedeltà; quello che forse occorre chiarire a noi stessi prima ancora che agli altri, è che si, in un certo senso siamo chiamati ad una duplice fedeltà, che non si esprime sul piano politico, o nazionale, tanto meno istituzionale bensì su quello dei valori di riferimento, condividiamo con questo paese in cui viviamo diversi secoli, per alcuni si tratta di millenni, di storia, di cultura, di civiltà, naturalmente ne riconosciamo pienamente le leggi fondanti e le istituzioni che anzi siamo tenuti a rispettare e rafforzare, come la stessa norma ebraica prevede, tuttavia abbiamo su di noi anche la sovranità di D.O, una sovranità che verte non solo su questo paese ma su tutta la terra, è un punto di riferimento imprescindibile per la nostra identità di popolo.
Per essere coerenti con la nostra identità di popolo ebraico, dobbiamo, tra l’altro aver ben presente, insieme a tutti i comandamenti religiosi, l’osservanza altrettanto rigorosa e scrupolosa delle mizvot “ben adam lachaverò”, le leggi morali e sociali della Torà, ad esempio nella sensibilità e nella generosità disinteressata verso chi si trovi in difficoltà, nell’attenzione all’uso delle parole al fine di non offendere, di non umiliare e di non ferire, nel gestire le nostre attività professionali e qualsiasi attività economica e commerciale, nel pubblico come nel privato secondo i criteri di rigore, di onestà e di correttezza quali ci impongono le regole della halakhà, egualmente dobbiamo cercare di sviluppare le categorie del pensiero ebraico, esercitando un pensiero autonomo, in certi casi critico anche nei confronti di comportamenti e forme di vita diffuse nella società in cui viviamo che non corrispondono all’insegnamento della Torà. L’identità di popolo ebraico deve anche farci maturare una prospettiva ampia, che guardi al mondo al di là dei confini nazionali e si proietti nel tempo, non con voli filosofici né con l’adesione a progetti estranei all’ebraismo, come avvenuto in passato con fallaci illusioni, che hanno inutilmente allontanato tanti nostri fratelli dalle loro radici, bensì attraverso il nostro comportamento nei comandamenti della Torà, quelli verso D.O come quelli verso il prossimo.
E’ anche attraverso l’identità di popolo ebraico che maggiormente sentiamo il nostro coinvolgimento e la nostra responsabilità per il futuro dello Stato d’Israele e per il bene dei nostri fratelli che hanno scelto di vivere nella terra promessa dal Signore, essi implicitamente interrogano la nostra coscienza sulle differenti scelte che noi esprimiamo rispetto al richiamo ideale esercitato da quella terra. Il concetto di unità del popolo ebraico, malgrado la varia collocazione territoriale di ogni comunità e di ogni singolo ebreo, è un concetto fondamentale che la tradizione ebraica, ma anche la nostra stessa storia, ribadiscono fortemente, basti pensare al valore del mantenimento della lingua ebraica nella liturgia e la forza di coesione che questa lingua ha saputo esprimere, a partire dalla rinascita nazionale del sionismo.
Un’altra modalità di relazione tra il Signore ed Israele che si intreccia con la liberazione dalla schiavitù viene espressa nella dimensione paterna di D.O, il Signore invia Mosè dal Faraone con il messaggio “Israele è il mio figlio primogenito” (Esodo 4,22), per metterlo in guardia sulle più gravi conseguenze che avrebbe portato il persistere della schiavitù. E’ importante sottolineare che Israele è chiamato primogenito non per esprimere un concetto di superiorità ma per manifestare l’affetto del Signore per questo popolo che, come un figlio devoto, per primo si è messo al Suo servizio, il concetto stesso di “figlio primogenito” sembra alludere al compito affidato ad Israele, a partire da quando riceve la libertà, di diffondere nel mondo il principio che tutti i popoli e tutti gli uomini sono appunto altrettanto figli di D.O. Nella Torà e nei profeti verranno sviluppate tante diverse modalità della relazione tra D. O e Israele espresse dalla metafora del rapporto tra padre e figlio, racchiudono sempre un profondo affetto, persino quando la condotta del popolo costringe il Signore al rimprovero e alla punizione secondo l’opinione di R. Meir che, commentando l’espressione “ Voi siete figli per il Signore vostro D.O”(Deut. 14,1) afferma che Israel è sempre considerato come un figlio per il Signore (Tb. Kiddushin 36a) a maggior ragione quando il Signore si rivolge con tenerezza verso Israele, basti pensare alle parole del profeta Osea: ”E’ per me Efraim il figlio prediletto? Il bambino delle mie delizie, Appena ne parlo lo ricordo con affetto” (Ger.31,19)
L’affetto, la cura e la tenerezza che il Signore nutre verso Israele sono esemplificate nelle varie fasi della liberazione dalla schiavitù e nel successivo percorso verso la terra promessa anche da immagini tratte dal mondo animale, in particolare attraverso l’esempio della singolare potenza e della sorprendente delicatezza con cui l’aquila si prende cura dei propri piccoli; il volo dell’aquila viene a rappresentare, al popolo riunito ai piedi del monte Sinai, lo straordinario percorso compiuto grazie all’azione divina, l’uscita dall’Egitto, il passaggio del mar Rosso e il superamento delle insidie del deserto: “Vi ho sollevato sulle ali di aquile e vi ho fatto venire fino a Me”(esodo 19,4). Il commento di Rashì sottolinea in questa immagine l’elemento dell’affettuosa premura di D.O nei confronto d’Israele – “A differenza degli altri uccelli che portano i piccoli tra le zampe per proteggerli dall’attacco di volatili predatori, l’aquila porta i propri piccoli sulle ali perché teme solo l’attacco dell’uomo, in questo modo li protegge dalle frecce dei cacciatori, quasi a dire “meglio che le frecce colpiscano me piuttosto che i miei piccoli, così il Signore ha portato Israele “come su ali di aquila” e ha disposto le Nubi della Sua Provvidenza a difesa del suo popolo su di esse infatti ricadevano le frecce che gli egiziani all’inseguimento scagliavano contro Israele.” L’immagine della premurosa cura dell’aquila verso i propri piccoli quale esempio della protezione esercitata dal Signore verso Israele, ricompare in un passo del Libro di Devarim “Come l’aquila veglia sul suo nido svolazzando su suoi aquilotti, tende le sue ali li prende, li solleva sulle sue penne” (Deut. 32,11) S.R. Hirsch spiega diversamente questa immagine: l’aquila sveglia i propri piccoli perché vuole che essi siano pronti a lasciare il nido, saltino sulle sue ali per volare verso l’alto; compare ancora una volta, in questa spiegazione di S.R. Hirsch, il legame di sentimenti e l’intesa di azione e di idealità che si stabilisce tra il Signore ed Israele con la liberazione dalla schiavitù, D.O ha risvegliato i figli d’Israele, ha svolto per loro un’azione di cura e di formazione fino a quando essi sono stati pronti per “saltare sulle sue ali verso l’alto” cioè disposti ad accogliere la Torà e a rivolgersi con fiducia e con coraggio verso gli importanti compiti e le responsabilità che Egli ha loro affidato.
Infine troviamo nei profeti e nel Shir Ha-Shirim, il Cantico dei Cantici, come il ricordo dell’uscita dall’Egitto, il percorso nel deserto, il patto del Sinai con il ricevimento della Torà vengono rappresentati con struggente tenerezza e intensità di sentimenti attraverso l’allegoria dell’amore e delle nozze: “Così dice l’Eterno, mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, e dell’amore al tempo delle nozze, quando mi hai seguito nel deserto in una terra non seminata”. (Geremia 2,3)
La libertà per il popolo ebraico non significa indulgere a scelte arbitrarie o casuali bensì accogliere un’impegnativa condotta di vita attraverso l’adempimento delle Mizvot, però è proprio questa libertà, nella pienezza e nella assoluta particolarità del suo significato che si arricchisce di tutte le emozioni, dei sentimenti, dei ricordi, delle allegorie con le quali la Torà ci presenta l’uscita dall’Egitto. Ogni nostra Mizvà realizzata può essere segno e gesto di reciproco amore con il Signore, quello per cui iniziamo e concludiamo la giornata richiamando il Comandamento di amare D.O “Con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e tutte le tue forze”.
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Una risposta
Profondo come sempre. Grazie Rav