Intervista a Bruno Pavoncello, attore di professione e supervisore del Bar Totò, attività di famiglia e luogo iconico di Piazza (la zona del Ghetto n.d.r).

Hai vinto recentemente un premio per la tua attività di attore. Come è nata questa passione e che parte ha nella tua vita?

È stata una cosa del tutto casuale. Giravano un film sulla Shoah e la produzione chiese una specie di protezione, in quanto precedentemente, in un’altra situazione, c’erano delle comparse vestite con costumi nazisti, ed alcuni nostri anziani correligionari inizialmente si spaventarono ma poi aggredirono i figuranti. Noi eravamo lì per fare sicurezza ai nostri anziani e non fare allontanare le figurazioni dal set. Mi videro dei casting e mi chiesero se ero interessato a fare alcune scene. Pensai ad uno scherzo perché nel frattempo le richieste diventarono due. Feci amicizia con questo reclutatore, tanto che aprimmo insieme un ufficio che gestiva le figurazioni sui set, e nel frattempo la mia presenza incuriosiva le regie e mi chiedevano di partecipare come attore. Dopo un po’ di anni mi ritirai da reclutatore e continuai a fare l’attore, anche se contemporaneamente alcune produzioni, sapendo che ero ebreo, mi contattavano per consulenze su temi ebraici o per aiutarli a chiedere permessi per girare in zona visto le ferree norme di sicurezza. Come contropartita ho sempre chiesto di assumere come comparse nostri correligionari, magari chiedendo alla deputazione di sollecitare qualche assistito. Non ultimo il film di Giulio Base, scritto da Israel Moscati zl, girato quasi interamente in Piazza che vide la partecipazione di molti correligionari, o  quello interpretato da Toni Servillo girato all’interno del Tempio Maggiore e in un appartamento in zona.

L’unico rammarico che ho, è che mi proposi a qualcuno della comunità, di cui non faccio nome, di fare da mediatore a titolo gratuito, quando le produzioni chiedevano l’uso di nostre strutture come location: avendo cognizione dei costi, dei prezzi di mercato etc sapevo cosa avrei dovuto chiedere come contropartita. Hanno fatto da soli e praticamente hanno regalato il servizio in diverse occasioni.  Quindi oggi recitare è la mia principale attività, anche se non ha continuità perché c’è sempre una selezione rigidissima prima di essere scelto. E dopo circa 20 anni ho avuto la soddisfazione di vincere un premio, ma comunque sono rimasto Bruno di Piazza, molti neanche lo sanno il lavoro che svolgo, perché in effetti nel bar agisco da supervisore o consigliere quindi mi vedono lì.

Il tuo fisico incute timore, la tua voce è stentorea, sorridi poco e sembri cattivo eppure tutti dicono che non sei un violento ed anzi sei un buono. È vero? Ti riconosci in questo fisico?

Sì, la mia fisicità porta sempre ad una identificazione nel personaggio del cattivo. Paradossalmente sono i ruoli più difficili da interpretare, per quanto puoi essere possente o per quanto vuoi minacciare, gli occhi parlano e ti dicono chi sei. Ma tutti guardano l’altezza e non gli occhi. No, non sono violento. Sembrerà strano ma da bambino portavo le botte a casa, ero consapevole della mia forza, e avevo paura di far troppo male ai miei coetanei che erano la metà di me. Poi scattò la scintilla che mi fece reagire, ma sono sempre stato in grado di gestire le situazioni. Però come si dice: quando ci vuole, ci vuole, non mi tiro indietro e sono guai, almeno lo erano, ora mi sono invecchiato.

Il Bar Totò è un’istituzione di Piazza. Ci racconti qualcosa della sua storia? Perché si chiama “Totò”?

Dal 1890 è l’attività di famiglia fondata da nonno Isacco e nonna Belladonna ed era ubicata per intenderci verso il teatro Marcello, era il caffè dei amici, ancora conserviamo alcune attrezzature d’epoca. Con le leggi razziali ne obbligarono la chiusura. Nel dopoguerra entrammo in possesso del locale attuale, gestito da mia nonna Camilla e dal fratello zio Moretto con l’aiuto di mio padre. Totò era uno zio di mio padre, fratello di Camilla e Moretto che si consegnò ai nazisti quando  catturarono il resto della famiglia il 16 ottobre. Oggi con miei figli, siamo alla quinta generazione

Dal punto privilegiato del Bar avrai visto scorrere gran parte della vita della nostra comunità. In tanti anni, qual è il tuo ricordo più bello, e quello meno bello, legato agli eventi degli ebrei di Roma?

Beh, il bar è storia. Ricordo che era il punto d’incontro di tutti, era il punto di riferimento per un appuntamento, per una consegna, per lasciare le chiavi, per ricevere una telefonata. Insomma era un centro servizi. Il momento più brutto certamente il 9 ottobre 82, nei giorni successivi entrò uno al bar che corrispondeva esattamente ad un identikit di uno dei presunti terroristi. Fu il panico. Entrarono nel bar decine dei nostri armati, polizia con i mitra in mano, insomma uno shock per i presenti.Tra i più belli, la fine della guerra del Kippur con il ribaltamento dell’esito finale. Ancora Piazza era abitata prevalentemente da ebrei, ed era un tripudio di bandiere con la stella di David.

Che futuro vedi per la zona del Ghetto? Qualcuno pensa che il fiorire di tanti locali l’abbia snaturata. Sei d’accordo o pensi che sia una naturale evoluzione?

Purtroppo ormai si è snaturata, è diventato monotematico, non ci sono alternative alla ristorazione. È cambiato il lavoro. Ormai anche i turisti sanno che lo Shabbat sono chiusi i ristoranti, quindi è un deserto, non c’è più nessuno. Prima c’erano molte alternative, elettrodomestici, biancheria, jeans insomma tutto. Ormai al Ghetto vengono solo per mangiare. Altro tema che ha snaturato Piazza, è l’apertura di molti Templi che se da una parte favorisce i residenti di altre zone, penalizza le presenze in Piazza. In conclusione prima Piazza ce la godevamo noi, adesso la godono gli altri.

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