L’agopuntura in un giorno di guerra

Angelica Calò ci racconta, attraverso un singolo episodio, la quotidianità di questa guerra arrivata a superare i nove mesi

Mattina, sediamo insieme a colazione nella sala da pranzo vuota, quei pochi che siamo rimasti nel kibbutz.

il Kibbutz Sasa, al confine col Libano, dove vive Angelica e suo marito Yehuda

Si parla del drone colmo di esplosivo lanciato dagli Houti che è scoppiato al centro di Tel Aviv, a un isolato di distanza dall’Ambasciata americana. Si parla delle ultime dichiarazioni di Netanyahu e sull’accordo per la liberazione degli ostaggi che non viene stipulato e che è, ormai, la ragione di vita di tutti noi.

C’è un volto nuovo con noi a tavola. “Chi sei tu?” gli chiedo sorridendo. Con grande affetto mi rispondono all’unisono che è Eran, il paramedico che è venuto volontario a Sasa per aiutarci perché non abbiamo in questo momento nessun infermiere, anche se siamo in prima linea. Un discorso tira l’altro, si parla di dolori fisici che, gran parte di noi, accusa negli ultimi mesi. “Vai da Eran, mi dicono, è bravissimo, fa l’agopuntura! Ti rimette a nuovo!!!”

Gli chiedo timidamente se posso, visto che non faccio proprio parte della squadra di emergenza.

“Certo, portati un cuscino perché non ce ne sono sul lettino!”

pochi giorni fa un drone lanciato dagli Houti ha provocato 1 morto e 8 feriti a Tel Aviv

E ci vediamo alle 11, prima di pranzo. Come studio per cure e trattamenti Eran ha ricevuto uno dei rifugi antiaerei, uno spazio adibito anche alle lezioni di Pilates….chi immaginava che avremmo usato di nuovo questi bunker per la guerra.

Gentilissimo e affabile come tutti coloro che esercitano il suo mestiere mi fa un po’ di domande, poi mi fa stendere sul lettino con la testa sul mio cuscino e mi puntella tutto il corpo, dalla nuca alle caviglie, di piccoli aghi.  “Ecco, se ci riesci, non ti muovere per 15 minuti!”  Ha già realizzato che sono iperattiva.  Passa un minuto e all’improvviso il suono della sirena fende il silenzio pacato. Eran sbianca. Lui abita in un kibbutz di quelli riparati vicino a Haifa.  Gli dico “Sta tranquillo, siamo al sicuro qui nel bunker” gli sorrido e arriva il boato, fortissimo!  Io, stesa cosparsa di aghi, non mi muovo, come mi ha detto…lui cerca disperatamente di telefonare a qualcuno per capire che succede ma non c’è linea né internet. Vuole uscire ma gli grido di no perché dopo le esplosioni non si può uscire per 10 minuti perché forse ne arriva un’altra subito dopo.

un’altra immagine del monte Meron

Dopo 10 minuti mi toglie gli aghi e usciamo. Un missile ha colpito il Monte Meron, sulle nostre teste. Mi preparo per andare.

“Spero che il trattamento ti aiuti un po’!” mi dice con un sorriso buono.  Lo ringrazio moltissimo e mi scuso per essere un po’ capricciosa e lamentosa per via di questi doloretti.

Mi guarda incredulo: “Capricciosa?  Ma hai sentito che botto pazzesco?”  Me ne vado a casa, col mio cuscino in grembo.

Sulle pendici del Monte Meron si vede ancora il fumo e in lontananza si sente il fragore di altre esplosioni…però un po’ meglio mi sento…

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