La mia direzione al MEIS: un quadriennio difficile e bellissimo
Rav Amedeo Spagnoletto sta per concludere il suo mandato come direttore del Meis. In attesa del rinnovo del CdA, a Riflessi racconta come è andata
Amedeo, tra pochi mesi arriverà a compimento il tuo mandato quadriennale come direttore del Meis di Ferrara, e forse questa è l’occasione buona per cominciare a fare un primo bilancio della tua esperienza.
Incredibile, sono davvero trascorsi quattro anni, come il vento. Segno dell’entusiasmo che ha accompagnato questa esperienza. Sono arrivato a Ferrara nel giugno del 2020, all’esito di un concorso, dopo che si era concluso il mandato di Simonetta Della Seta.
Qual è stato il tuo primo impatto con il Meis?
Il primo impatto è stato caratterizzato da consistenti difficoltà, ma pieno di sfide avvincenti e inaspettate.
Perché?
Per due motivi. Il primo dovuto al contesto generale: nel giugno del 2020 si era ancora in piena emergenza pandemica, i musei erano tutti chiusi e lo sarebbero stati ancora a lungo. Anche dopo che larga parte della società sarebbe tornata ad una progressiva normalità. In questa situazione, come immaginerai, tutte le idee e i progetti hanno dovuto subire un generale ripensamento. Inoltre, da lì a poco un’altra tegola cadeva sul museo. A seguito del Covid infatti, falliva l’azienda incaricata di portare a compimento i lavori che avrebbero consentito al museo di usufruire di nuovi padiglioni espositivi. Da quel momento si è aperta una lunga procedura amministrativa che speriamo si concluda presto, rispetto alla quale, ci tengo a sottolinearlo, la Fondazione Meis è solo spettatrice; la gestione delle gare d’appalto dei lavori è infatti di squisita competenza ministeriale.
Quindi una situazione non incoraggiante. Come l’hai affrontata?
Insieme allo staff del museo abbiamo deciso un piano alternativo che ha trovato subito l’approvazione del CDA presieduto da Dario Disegni, con il quale fin dall’inizio si è creato un rapporto di fiducia e di piena intesa. Il Meis era un museo sostanzialmente nuovo, inaugurato solo alla fine del 2017, come ho detto sotto la direzione di Simonetta Della Seta, ma ora ci trovavamo di fronte a una situazione del tutto inedita, a causa del Covid. La prima reazione è stata quella di mettersi in gioco attraverso una serie costante di appuntamenti online. Durante il lockdown, infatti, tutti abbiamo scoperto l’utilità delle riunioni via zoom, e anche il Meis non ha fatto eccezione. Questo ci ha dato una progressiva visibilità. Le persone che si sono collegate alle nostre iniziative provenivano da un territorio che ha varcato subito i confini regionali fino ad includere l’intero Paese. Anche tanti utenti dall’estero, le hanno seguite e apprezzate a distanza, divenendo così affiliati permanenti.
A quel punto la programmazione come è stata orientata?
Come detto partivamo da quanto aveva programmato da Simonetta: il Covid è scoppiato circa un mese prima che si inaugurasse la mostra sui Ghetti. La mostra poi è stata rinviata di un anno, ma intanto tutto il materiale culturale, a cominciare dal catalogo, è stato utilizzato una serie di incontri tematici utili a far conoscere la storia dell’ebraismo italiano e le potenzialità del museo. Il secondo obiettivo è stato quello di offrire un sostegno agli insegnanti e alle classi per la programmazione della loro attività di didattica. Durante il lockdown il museo è stato costantemente al servizio delle scuole. Tieni conto che la pandemia ci ha penalizzato soprattutto in questo: a lungo è stato impossibile ospitare delle classi per le norme sul green pass etc.; l’attività a distanza ha in parte potuto bilanciare questa perdita.
La pandemia ha prodotto i suoi effetti per tutto il 2020 e in parte per il 2021. Quando poi i musei hanno riaperto, il Meis come si è organizzato?
Abbiamo finalmente potuto realizzare una serie di mostre. La prima aveva come obiettivo quello di festeggiare il ritorno a una situazione di sostanziale libertà e quindi l’abbiamo chiamata “Mazal tov!”, avendo ad oggetto il matrimonio ebraico. Voleva essere la nostra risposta all’isolamento e alla chiusura non solo del museo, ma dell’intera società. Dalla mostra ne è scaturita anche una online, visitabile sul nostro sito. Mi piace ricordare un bell’incontro a margine dell’esposizione che ha visto coinvolti rappresentanti musulmani, ebrei, cinesi e africani sulle tradizioni del matrimonio di ogni comunità. Al tempo stesso, abbiamo avviato una profonda e capillare attività di informazione, rivolta agli studenti e agli insegnanti, sul fronte della Shoah. Seminari, laboratori, favoriti anche dalla convenzione con il MIUR che assegna un ruolo nazionale al MEIS rispetto al compito di divulgare la conoscenza della persecuzione e la storia degli ebrei in Italia.
E poi che altro?
Ci tengo a menzionare l’assegnazione di fondi E.U. per un progetto dal titolo “Remember House”, che vede al centro il concetto di casa. Lo stiamo realizzando in collaborazione con la Fondazione 1563, che possiede le carte relative ai territori italiani del nord connesse con l’ente EGELI, creato dal fascismo per gestire le confische dei beni ebraici. In questo modo abbiamo potuto ricostruire la storia delle sottrazioni di beni, e riflettere sulla condizione di clandestinità in cui gli ebrei italiani hanno dovuto vivere. Le scuole sono protagoniste. A loro è fornito un manuale, dei documenti e a partire da questo elaborano il loro modo di rappresentare il concetto di esclusione e di privazione delle certezze e dei propri beni. Questo ha permesso anche di fare una riflessione sulla contemporaneità, fatte naturalmente le debite differenze, migrazioni, multiculturalità etc. I contenuti del progetto sono stati presentati a numerose associazioni che si occupano di assistenza sociale e che sono impegnate nell’integrazione delle comunità. C’è stata poi la mostra su Sukkot, svolta in modalità innovativa. Accanto a opere d’arte e testimonianze del passato ebraico, abbiamo offerto la possibilità ai visitatori, gli studenti in primis ma non solo, di costruire la loro sukkà con il lego. Infine, voglio ricordare la mostra “Case di vita”: che ha posto l’attenzione a due binari, quello identitario e quello legato all’architettura, presentato due luoghi importanti per l’ebraismo: la sinagoga e il cimitero.
Il Meis ha svolto anche importanti mostre sulla storia dell’ebraismo italiano.
Certamente. Dopo la mostra inaugurale del 2017, relativa ai primi 1000 anni, la seconda esposizione è stata dedicata al Rinascimento, e appunto come già ricordato, quella relativa ai ghetti.
E ora?
Tra poche settimane verrà inaugurata la mostra che completa il quadro cronologico, incentrata sul secolo scorso dal titolo: “Ebrei italiani nel Novecento” che sarà curata da Vittorio Bo e Mario Toscano. Il concetto centrale sarà la cittadinanza che nel corso di questi cento anni per gli ebrei italiani si è dapprima dilatato, con l’intensa integrazione e partecipazione nella società, per poi conoscere una brusca e violenta battuta d’arresto con conseguenze tragiche e il percorso lento e tortuoso di resilienza e reintegrazione dal dopo guerra. Una narrazione che tiene in considerazione costantemente l’aspetto identitario, gli apporti culturali alle arti, la costituzione dello stato d’Israele e la persistente minaccia dell’antisemitismo. Questa mostra che durerà fino ad ottobre riserva anche una sorpresa per tutto il pubblico. Chiederemo al mondo ebraico italiano di raccontarci attraverso una foto e un racconto breve il loro ‘900. Presto partirà la call, contiamo di raccogliere tanti aneddoti sconosciuti e di pubblicarli sul sito in modo accattivante e che susciti curiosità.
Il ministro della cultura sarà presente?
È stato invitato con grande anticipo e tanto il CDA quanto noi al museo, desideriamo con tutto il cuore di averlo quale ospite speciale a Ferrara per l’inaugurazione.
Un museo come il Meis ha lo scopo di far conoscere la cultura ebraica italiana al resto del paese. Dopo il 7 ottobre, e il tragico attacco di Hamas a Israele, purtroppo si è registrato un aumento dell’antisemitismo, anche in Italia. Il Meis si è posto il problema di come dare una risposta, nell’ambito della propria competenza, a questo rigurgito antisemita?
Uno dei compiti del museo è proprio questo. L’idea che accompagna il nostro lavoro è che, attraverso la diffusione della cultura e la conoscenza della storia degli ebrei in Italia, si combatta l’antisemitismo. Un pregiudizio che affonda le radici anche se non esclusivamente, sull’ignoranza. Certo, i dati in repentina crescita di questi mesi ci inducono a porci la domanda se non sia necessario ripensare i registri di comunicazione. Accenno ad un accaduto che mi ha fatto pensare. Alcune settimane fa proprio a Ferrara oltre 20 giovani in un locale del centro sembra che abbiano inneggiato al fascismo con insulti verso gli emigranti e i più deboli. Si tratta di giovani fra i 20 e i trent’anni. Con molta probabilità almeno alcuni di loro negli anni passati hanno visitato il Meis. Evidentemente una esperienza che non li ha toccati in modo profondo. Naturalmente non ci dobbiamo lasciare scoraggiare. Semmai deve spingerci a cercare di migliorare la nostra offerta culturale, ipotizzare nuove strategie e domandarci se quelle promosse finora sono state efficaci. Per usare una metafora, direi che contro l’antisemitismo c’è bisogno di una cura articolata composta da tanti farmaci. Una medicina viene inoculata al Meis.
Il tuo mandato scadrà a giugno, e c’è la possibilità che esso venga rinnovato. In ogni caso, facendo un bilancio di questi primi quattro anni, quali sarebbero le consegne che lasceresti a chi gestirà il prossimo quadriennio?
La mostra sul Novecento richiederà un ripensamento di tutti i nostri spazi espositivi. Dovremo cioè procedere a un riequilibrio del percorso per così dire, che dia più spazio all’ultimo periodo della storia dell’ebraismo italiano rispetto a quello delle origini. Io credo che per il museo si apra la sfida di narrare innanzitutto il presente, un ebraismo vivo, raccontare più chi siamo rispetto a chi eravamo.
Acquista il libro “Donne del mondo ebraico italiano”