Credo che si debba distinguere fra la Meghillà di Ester e il relativo trattato del Tamud Bavlì. L’analisi che proponi mi sembra valida per il libro biblico, anche se non va perso di vista l’insegnamento per il quale occorre essere capaci di scorgere la mano divina in tutto ciò che accade, insegnamento che è valido in Israele come in diaspora. Il trattato del Talmud invece è…diasporico come tutto il Talmud…babilonese! E questo è un grandissimo spunto di riflessione. Di fatto l’opera fondamentale dell’ebraismo è un’opera diasporica e prevale sull’opera parallela, il Talmud Yerushalmì che fu invece redatta in Israele. Non è una questione ideologica, ma è un dato di fatto importante. In un certo senso, Rambàm tentò di correggere questo fatto scrivendo il suo “Mishnè Torà” in ebraico, richiamandosi così alla Mishnà, anch’essa redatta in ebraico -e non con l’abbondante uso di aramaico tipico del Talmud- e redatta in Israele. Ma tutte le opere di halakhà successive hanno seguìto il Talmùd e non hanno proseguito sulla scia di Rambàm, fino ai nostri giorni. Solo oggi, in Israele, alcune autorità rabbiniche scrivono deliberatamente in un fluente ebraico moderno. Una questione ancora molto aperta e da seguire con grande interesse.
Un altro tema di cui si occupa il Trattato è se la Meghillà possa essere considerata un testo canonico, ossia se in esso soffi lo Spirito divino (7a). La stessa domanda viene posta dai Maestri per il Qoelet e Shir Ha Shirim. Come sappiamo, alla fine questi tre testi sono entrati nel canone. A me sembra che questa decisione testimoni due aspetti. Il primo è la grande sapienza dei Maestri, che sanno individuare una scintilla divina anche nel pessimismo del Re Salomone, nel lirismo a tratti erotico del Cantico, e nel silenzio di Dio in Ester. In altre parole: la sapienza ebraica è sempre capace di andare oltre le apparenze, e sa scorgere la verità là dove molti benpensanti sarebbero pronti con troppa fretta a esprimere un giudizio critico. Il secondo è che, appunto, questo testo forse ci insegna che occorre sapersi mettere in ascolto, per ricevere la voce di Qadosh Baruch Hu, la quale spesso giunge da luoghi inaspettati. Sei d’accordo?
Stai suggerendo una traduzione alternativa (vedi il limite, se vuoi il rischio, del tradurre?), “soffi lo Spirito divino”, laddove noi abbiamo tradotto ispirazione divina o spirito di santità. Condivido comunque la tua osservazione, ma con una riserva. La condivido perché è corretta, è in linea con quanto abbiamo commentato sopra a proposito del riconoscere la mano divina ovunque ed è esplicitamente formulata nei Proverbi, dove è scritto che il Signore va “(ri)conosciuto in ogni tua azione”. La riserva è invece per il fatto che non tutti i libri sono stati accettati come canonici, quindi esiste la possibilità di libri che vanno tenuti fuori.
Per individuare i libri sacri, il Trattato Meghillà usa una espressione che potrebbe stupirci: sono quelli che “rendono le mani impure” (7a). Come è possibile che un testo sacro renda impuro? Emanuel Levinas dà un’interpretazione stimolante: “le mani impure” sarebbero quelle di chiunque creda di avvicinarsi alla Torah lasciandosi sedurre dal pensiero della modernità, ossia con quelle mani che, scrive il filosofo francese, “toccano tutto. Sono askaniot: sempre indaffarate, desiderose di impossessarsi di tutto”, il simbolo di “una certa impudenza dello spirito che si impadronisce selvaggiamente di un testo, senza preparazione e senza maestro”.[1] Oggi quanto è difficile per un ebreo che vive nel mondo contemporaneo evitare di avere le “mani impure”?
Esempio meraviglioso. Esisteva un’esigenza tecnica, quella di evitare che i libri sacri venissero custoditi insieme al cibo e che così facendo potessero venir rovinati dai topi. Levinas dà di questa esigenza un’interpretazione “midrashica” ed aggiunge una spiegazione che è tutta una sua bellissima costruzione. Nel far questo, rielabora ancora una volta in modo originale un altro principio rabbinico di tipo tecnico, quello delle mani askaniòt: siccome le mani hanno maggiore facilità di venire a contatto con qualcosa di impuro rispetto alle altre parti del corpo, i Maestri decretarono una impurità specifica per le mani. C’è una questione che si pone sempre, per ogni opera: la si deve leggere cercando di cogliere l’intenzione di chi l’ha scritta, oppure la si può leggere indipendentemente da questa e con pieno diritto di interpretarla come si vuole? Io propendo per il primo approccio. Quando ciò si applica a testi sacri, ciò vale a maggior ragione e quindi è importantissimo il richiamo alla figura del maestro. Il che non vuol dire poi che una volta capito un certo insegnamento questo non possa suggerire degli ulteriori significati. Il lettore moderno, e forse il lettore di qualsiasi generazione, ha “le mani impure”. Se ha sufficiente modestia può però riuscire ad accostarsi al testo. Prima di mettervi la propria personale ciliegina, c’è una torta da preparare e questo va fatto secondo una ricetta tradizionale precisa. Sottolineerei infine il monito a “non impadronirsi”: della Torà non ci si impadronisce, la si condivide!
A proposito di scoperte inaspettate: nel Trattato Meghillà c’è anche una discussione relativa alla possibilità di tradurre il libro di Ester in una lingua diversa dall’ebraico (8b e 9a). Alla fine la risposta sembra essere positiva, limitatamente però al greco, ossia proprio la lingua di quel popolo che più di ogni altro provò ad assimilare gli ebrei, come ci ricorda la storia dei Maccabei. Come dobbiamo interpretare questa soluzione? Ci dice qualcosa del nostro rapporto con gli altri popoli e le altre culture?
Il greco era la lingua della cultura. Dunque tutto il rapporto con la lingua greca e la sapienza greca è l’immagine dell’eterna difficoltà dell’ebraismo a rapportarsi con la società e la cultura circostanti. Un rapporto fatto di rispetto e di distacco.
Per finire, vorrei tornare alla discussione dell’inizio; se il libro di Ester possa essere considerato un libro sacro. Nel Trattato (16b) c’è un accenno al passo per cui il racconto contiene “parole di pace e di verità” (Ester 9,30). Secondo Levinas, questa alla fine è la soluzione che permette di considerare la Meghillà un libro in cui soffia la voce divina: perché ci parla di pace, e di verità. Possiamo dire allora che questo è un libro messianico?
Qualsiasi opera in cui c’è salvezza è in qualche misura un libro messianico. Nella Meghillà ciò è particolarmente forte. La sequenza rapida (nell’impressione che dà il racconto assai più che nei tempi reali che possono ricostruirsi dal racconto stesso) degli avvenimenti sottolinea questo aspetto. Tutto viene sovvertito repentinamente, si può essere indotti a pensare a un’apocalisse escatologica. Nel pensiero ebraico il messianesimo e il mondo futuro sono punti fermi. Tuttavia, il pensiero ebraico è fondamentalmente incentrato su questo mondo, si preoccupa di cosa si deve e non si deve fare in questo mondo. Sicché direi che anche la Meghillà è un’opera legata a questo mondo, nella quale esiste un richiamo all’era messianica. È in questo mondo che dobbiamo perseguire pace e verità, per poterne poi pienamente godere in un’epoca futura. E già che parliamo di pace, concludiamo con uno degli insegnamenti più alti che ci vengono dalla Meghillà di Ester: la festa di Purim si celebra nei giorni in cui gli ebrei si riposarono, all’indomani della fine della guerra. Non è il trionfo militare che si celebra quanto la pace che questo ha consentito di ottenere.
[1] E. Levinas, “Per un posto nella Bibbia”, in Letture talmudiche, Jaka book, Milano 2000, p. 28 e s.
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