Il mio impegno per l’Europa e per “Sinistra per Israele”
A poco più di 40 giorni dal voto europeo, Emanuele Fiano, candidato per il Pd, spiega la sua idea d’Europa, mentre domenica si prepara ad aprire a Milano l’Assemblea nazionale di “Sinistra per Israele”
Emanuele, vorrei cominciare questa intervista partendo da Israele e da Gaza. Dopo 7 mesi di conflitto, qual è il tuo giudizio sulla situazione attuale?
Direi che mi riconosco nella dichiarazione rilasciata da Benny Gantz proprio nei minuti in cui stiamo realizzando questa intervista: rispondendo a Smotrich, esponente della destra messianica, Gantz ha dichiarato che la liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza è più importante dell’operazione militare a Rafah. Mi sembra che in tal modo si delinei un principio sacrosanto, richiesto da centinaia di migliaia di cittadini israeliani, e cioè che si faccia ogni sforzo necessario per la liberazione dei rapiti. Più in generale, io sostengo il cessate il fuoco in concomitanza con la liberazione dei rapiti. Spero dunque che le prossime ore, che vedranno una nuova fase di trattative al Cairo, possano portare notizie positive. La proposta israeliana si è spinta molto più in là di quello che si poteva prevedere, perché sembra che sia stato concesso il ritorno al Nord degli sfollati che da mesi vivono al sud della striscia. Spetta dunque ad Hamas la responsabilità di accettare l’accordo. Per quanto riguarda, più in generale, questi 7 mesi di guerra, certo un giudizio non è semplice. Io difendo il diritto pieno di Israele ad assicurare la propria sicurezza, anche perché, al contrario di molti osservatori internazionali, penso di conoscere bene il nemico di Israele che vive a Gaza, e questo mi fa dire che una reazione militare certamente era pienamente giustificata. Tuttavia, a distanza di molti mesi, oggi ritengo che il sacrificio di moltissime vite umane non sia più sopportabile, anche se certo non mi fido dei numeri diffusi da Hamas. È però evidente che la distruzione degli edifici sia stata ingente e che ciò abbia portato la morte di tantissimi civili. Dunque affermo la necessità di un cessate il fuoco il fuoco, alla condizione beninteso della liberazione degli ostaggi.
La guerra sta ormai radicalizzando anche l’opinione pubblica occidentale. In particolare, sono ormai numerose le proteste nelle università europee e americane. Che giudizio dai del la richiesta di boicottaggio delle università israeliane avanzate da movimenti giovanili in Italia?
Viviamo un momento molto drammatico, di cui queste proteste ne sono testimonianza. Peraltro non sono sicuro che chi alimenta la protesta possa dirsi esponente di un movimento, in quanto ho la sensazione che la consistenza numerica di queste frange radicali, benché molto visibili, sia debole. Quanto al merito, ritengo che l’idea del boicottaggio vada rigettata in modo categorico.
Perché?
Innanzitutto perché si tratta di un atto discriminatorio. Se a Torino è stato votato dal Senato accademico un invito a non partecipare ai bandi di ricerca pubblicati dal ministro degli affari esteri per la collaborazione con le università israeliane, per il rischio del dual use, mi risulta che la stessa università al contrario siano stati mantenuti gli impegni presi con le università iraniane. In ogni caso, il nostro paese ha da tempo progetti di ricerca con paesi di cui è lecito dubitare la postura democratica: penso ad esempio alla Cina. Per questo, opporsi solo alle collaborazioni con le università israeliane è discriminatorio. Inoltre, le persone che sostengono il boicottaggio conoscono molto poco la realtà di Israele, e non sanno che le università israeliane, come in generale tutte le università, sono i luoghi in cui più si sviluppa il pensiero critico. In Israele da sempre le università esprimono il loro dissenso rispetto all’attività del governo, non solo di quello attuale, e sono centri in cui si sviluppa il dibattito libero e l’approfondimento culturale. Bloccare i rapporti con le università israeliane va dunque in direzione opposta a quella che, ufficialmente, sostengono i fautori del boicottaggio. La realtà, temo, è che sotto la richiesta di boicottaggio si nasconda un atteggiamento complessivamente ostile non solo Israele, ma agli ebrei. Infine, mi fa riflettere che questa protesta rischia di essere espressione di un fenomeno ancora più preoccupante.
A cosa ti riferisci?
Lo scorso 25 Aprile alla manifestazione nazionale per la festa della Liberazione, svolta come ogni anno a Milano, è stato assaltato lo striscione di “Sinistra per Israele”, che recitava “due popoli per due Stati”. si trattava dunque di una scritta di pace, a salvaguardia di due diritti, perché questa è la nostra visione. Eppure lo striscione è stato assaltato non da gruppi palestinesi, né politicamente organizzati, ma da una baby gang, una cosiddetta “maranza”, ossia un’aggregazione di una decina di persone, alcune delle quali minorenni, tra cui c’era qualcuno armato di coltello a lama lunga. Questo attacco, a mio giudizio, non può essere ricondotto semplicemente un episodio di criminalità giovanile. Se penso che questi giovani hanno sentito l’esigenza di aggredire proprio il nostro striscione, sul quale era ben visibile la stella di David, Io credo che ciò dipenda da qualcos’altro.
Da cosa?
Gli aggressori sono ragazzi di seconda o di terza generazione di immigrati nordafricani, prevalentemente di origine egiziane. Questo mi fa pensare che oggi sia in corso non solo uno scontro politico fra pro Pal e sostenitori di Israele, ma che rischiamo una “francesizzazione” dello scontro, ossia un antisemitismo che nasce all’interno di gruppi di immigrati, che pur essendo oggi di nazionalità italiana, esprimono un sentimento di odio antiebraico che proviene da altre culture.
A Milano c’era però anche la frangia politica che si è fatta sentire.
Certo. A piazza del Duomo era presente un gruppo organizzato di circa 100/200 persone, fortemente politicizzato, composto non soltanto dalle organizzazioni palestinesi, ma anche dal sindacato di base e dai centri sociali. Il gruppo, al centro della piazza, sventolava solo bandiere palestinesi, e aveva l’obiettivo di arrivare con la forza sul palco, cosa che tuttavia gli è stata negata per la fermezza del servizio d’ordine dell’Anpi e per la volontà del sindaco Sala. È però indubbio che entrambi i fenomeni, quello più spontaneo e quello più organizzato, insieme disegnino un panorama preoccupante.
Tu facevi riferimento allo striscione di “Sinistra per Israele” che da un paio di mesi ha rilanciato la propria iniziativa politica. A tuo avviso che spazio può ritagliarsi nell’attuale situazione, così a rischio di radicalizzazione, il suo progetto politico?
Sia sul piano internazionale che su quello delle nostre coscienze occidentali siamo come in un mare in tempesta. Pertanto io sono convinto che occorra tenere il timone dritto. Noi di “Sinistra per Israele” rimaniamo convinti che in questo conflitto occorra ripartire dal nucleo del nostro pensiero, che vede in quella terra la presenza di due popoli, ciascuno portatore di un’eguale diritto, quello a vivere in sicurezza in democrazia in un proprio Stato. Chi crede in questo principio deve sostenerlo anche in momenti difficili come questo; del resto, quando agli inizi degli anni 90 abbiamo cominciato a sostenere la necessità di due popoli per due Stati sembrava la nostra un’utopia incredibile, mentre trent’anni dopo registro che l’opinione pubblica internazionale sostiene tale soluzione. “Sinistra d’Israele” nasce e lavora per questo obiettivo, sia dentro la sinistra italiana che in quella israeliana. Riconosco la difficoltà del momento, certo, con questa guerra terribile a Gaza, che segue il terribile e disumano attacco di Hamas del 7 ottobre. Eppure riconosco anche degli elementi di speranza, come quelli che ci dà il popolo israeliano, che manifesta durante la guerra contro il governo in carica, la migliore dimostrazione che quando si è dalla parte giusta non si deve temere di sostenere la propria posizione.
Domenica prossima “Sinistra per Israele” tiene la propria assemblea nazionale a Milano. Che obiettivi si prefigge?
Innanzitutto vogliamo permettere un confronto. Da un paio di mesi è stato lanciato un manifesto firmato da oltre 1500 persone. L’assemblea nazionale vuole offrire a quanti più di loro saranno presenti un luogo di dibattito e di incontro, insomma un luogo in cui riconoscersi in una situazione in cui troppo spesso ci si è sentiti isolati. Abbiamo infatti verificato con la raccolta delle firme che ci sono tantissime persone in Italia che, pur criticando il governo Netanyahu, sono consapevoli che sia in corso un processo di discriminare contro Israele e contro gli ebrei, è che è alto il pericolo di un nuovo antisemitismo, contro cui bisogna abbattersi. L’obiettivo dell’assemblea nazionale è quello di confrontarsi su temi comuni come la difesa di Israele e la necessità di difendere i diritti dei palestinesi. Per questo contiamo anche sulla creazione di un laboratorio di formazione politica. A Milano saranno presenti importanti personalità, sia italiane, come Giuliano Amato, sia della sinistra israeliana, come Yair Golan. Il nostro obiettivo è dunque tornare alla politica.
Quali sono le prospettive ulteriori? “Sinistra per Israele” è pronta per un Congresso?
“Sinistra per Israele” è un’associazione democratica, con propri organi e rappresentanti. Al momento ci sono dei gruppi organizzati a Milano, Roma, Bologna, Firenze, e spero presto anche a Genova e Torino. In questa prospettiva credo che l’organizzazione di un Congresso sia lo sbocco naturale della nostra associazione.
Tu sei candidato per il Partito democratico alle elezioni europee, nel collegio del nord ovest. Innanzitutto, come sta andando la campagna?
Sono impegnato in una difficile campagna elettorale, in cui molti sono i candidati. Ciononostante sono fiducioso, e tutto il mio impegno, da qui alle elezioni dell’8 e 9 giugno, è orientato a centrare questo obiettivo.
Su quali punti stai concentrando la tua campagna?
Direi essenzialmente su tre questioni. La prima, che più mi interessa, è legata alla politica estera europea. Oggi l’Europa è priva di una politica estera comune, che serve invece, ad esempio a costruire una difesa comune. Nei moltissimi incontri che sto facendo fin dalla fine dello scorso anno, quando ho svolto un tour in tutta Italia per la presentazione del mio ultimo libro, mi sono state più volte fatte domande sulla questione mediorientale e il ruolo dell’Europa. Racconto al riguardo un aneddoto. Subito dopo i fatti del 7 ottobre, i primi ministri europei o i presidenti dei principali Stati europei sono andati in visita in Israele, a portare la loro vicinanza e solidarietà, così come poi in Cisgiordania, da Abu Mazen, e al Cairo. Dopo questi incontri Joseph Borrell, Alto rappresentante per la politica estera europea, disse che tutte queste visite erano state realizzate solo a titolo personale. Era la verità, perché l’Europa non ha una voce comune. Per questo credo sia fondamentale lavorare perché si raggiunga presto una difesa comune, che serva all’Europa per realizzare operazioni di Peace keeping e per costruire una politica estera comune. Per far ciò, però, è necessario scalare un gradino, e questo è il secondo punto del mio programma.
Di che si tratta?
Occorre rafforzare il metodo democratico in Europa. Oggi le istituzioni politiche europee più importanti sono tre: il Parlamento, la Commissione e il Consiglio. Quest’ultimo è composto dai capi di Stato e di governo di 27 democrazie. Ora, trovo piuttosto curioso che ciascuna di queste figure sia stata eletta nel proprio paese in base a regole democratiche, ma arrivate in Europa possa esercitare il diritto di veto, che blocca le iniziative di tutti gli altri. Per esempio, di recente era stato raggiunto un accordo in tema di immigrazione, che avrebbe consentito una ridistribuzione in tutto il territorio europeo dei migranti, moltissimi dei quali arrivano come prima destinazione in Italia. Ebbene, il premier ungherese Orban, amico della presidente Meloni, ha minacciato il veto, il che ha obbligato a rivedere l’accordo al ribasso, tant’è che oggi la ridistribuzione è praticamente scomparsa. Rafforzare il funzionamento democratico delle istituzioni europee è dunque fondamentale, anche senza necessariamente modificare i trattati.
E il terzo punto?
Il terzo punto su cui mi vorrei concentrare, nel caso fossi eletto, è quello dei rapporti fra noi europei e l’Islam. Ci troviamo di fronte a un momento storico particolare, in cui in tutta Europa è presente una comunità musulmana numerosa. In alcuni casi, come in Francia o in Germania, si verificano periodicamente situazioni di fortissimo conflitto, con la tendenza alla radicalizzazione di una parte di questi immigrati o delle generazioni successive. Si tratta di un problema che non è più rinviabile. Naturalmente, sono per il pieno esercizio della libertà di professione della propria confessione religiosa, ma al tempo stesso credo che occorra contrastare ogni possibile radicalizzazione. Da deputato del Parlamento italiano avevo proposto un disegno di legge di contrasto alla radicalizzazione e penso che lo stesso tema debba essere portato anche in Europa.
Come immagini l’Europa nei prossimi 5 anni?
Innanzitutto lasciami dire che spero di poter contribuire a migliorare l’Europa dal Parlamento europeo, dove spero di essere eletto a giugno. In tal caso, lavorerei per rafforzare un modello federale, che abbia l’obiettivo la costruzione degli Stati uniti d’Europa, e per un funzionamento sempre più democratico delle istituzioni europee. Del resto, abbiamo un esempio importante cui prendere riferimento: il PNRR ha consentito, attraverso la messa in comune di un debito europeo, di trovare importanti risorse da investire per lo sviluppo di tutti i paesi, anche di quelli meno ricchi. C redo che questo sia un modello che possa essere ripetuto. Occorre un’Europa più solidale, che sappia prevedere gli sviluppi del mondo del lavoro, e che sia in grado di fornire un lavoro adeguato alle giovani generazioni. C’è poi il tema dello sviluppo delle tecnologie, dell’intelligenza artificiale, tutte questioni che richiedono un intervento legislativo europeo. In generale, mi piacerebbe contribuire a costruire un’Europa che sappia dialogare con le altre grandi potenze mondiali, come gli Stati Uniti e la Cina, senza subire la lotta commerciale in corso fra tali due giganti, ma sapendo intervenire con giustizia, ossia come una grande democrazia solidale.
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Una risposta
Grazie,molto interessante. Ho apprezzato soprattutto il riferimento all Islam e il contrasto alla radicalizzazione