Il libro della settimana

“Ucraina senza ebrei”, di Vasilij Grossman

Vasilij Grossman (1905-1964) qui fotografato a Stalingrado

Il vento della morte inizia a soffiare già prima di trovarsi a tu per tu con i cadaveri di Treblinka per Vasilij Grossman nel suo avvicinarsi al seguito dell’Armata Rossa nei territori liberati dell’Ucraina orientale. Lo starnazzare delle oche nelle aie desolate dei villaggi violentati è il suono sinistro e angosciante di questa vita animale che sopravvive all’umano. Ma se quei rumori sembrano guidare verso i villaggi per far vedere le lacrime e le sofferenze inflitte dalla guerra è il silenzio a fare ancora più paura: quello dei villaggi dove un manto di malerba copre quei prati intrisi del sangue degli ebrei. “Non ci sono più ebrei, in Ucraina. Da nessuna parte: a Poltava, Char’kov, Kremencug, Borispol’ e Jagotin, nelle città, nelle centinaia di Shtetl e nelle migliaia di villaggi non è dato vedere ragazze con gli occhi neri lucidi di lacrime, né di sentire la nenia lamentosa delle vecchie, né incrociare la faccina scura di un bambino affamato. Niente parole. Silenzio. Un popolo ucciso”.

E’ un viaggio austero e dignitoso la lettura di “Ucraina senza ebrei”, una sessantina o poco più di pagine in cui lo scrittore e giornalista ucraino racconta le sue prime impressioni avanzando verso ovest nelle zone appena liberate dai nazisti. C’è tutto lo struggimento del figlio di queste campagne davanti al massacro appena compiuto.

Ebrei ucraini a inizio Novecento

E’ il 1943, non è stato ancora svelato il crimine dei campi di sterminio ma già Grossman cerca di indagare le cause di questa lunga notte della storia dell’umanità. “In tutti i libri degli autori che, fra i nostri, hanno scritto di come si vive in Ucraina, nelle opere di Gogol’, Cechov, Korolenko e Gorkij, che parlino di epoche tristi e tremende o di altre di pace e spensieratezza, in Taras Bu’ba, nella Steppa di Cechov o nei racconti limpidi, splendidi di Korolenko, gli ebrei ci sono sempre. E non potrebbe essere altrimenti! Chi di noi, nati e cresciuti in Ucraina – grida Grossman – non si è nutrito sin dagli anni più verdi delle scene di vita del popolo ebraico fra città, shtetl e villaggi ucraini ?”.

Un solo ebreo incontra l’autore in questo girovagare tra il silenzio di un popolo sterminato. In queste pagine c’è tanta sofferenza e tanta rabbia. Impossibile fare l’elenco delle vittime, dice, ma una cosa è certa: “li hanno uccisi ovunque” per questo si dovrà dire “che se in una città c’erano cento ebrei furono giustiziati tutti e cento: non uno di meno, mai, da nessuna parte; e che se in una città più grande gli ebrei erano cinquantacinquemila, tutti e cinquantacinquemila – non uno di meno – furono giustiziati. Si dovrà dire che le esecuzioni avvenivano sulla base di liste stilate con scrupolo e cura, liste che non hanno risparmiato né i vecchi centenari né i neonati, liste di morte in cui sono finiti tutti gli ebrei ancora in Ucraina all’arrivo dei tedeschi, tutti fino all’ultimo”.

A Babij Jar, in Ucraina, nel settembre del 1941 i nazisti e collaborazionisti ucraini uccisero decine di migliaia di ebrei

A guerra ancora in corso, queste pagine di Grossman rappresentano la prima testimonianza di una specificità dei crimini nazisti contro gli ebrei, di una priorità della Germania hitleriana dell’applicazione del male, di una scala di popoli da combattere e da mettere uno contro gli altri. Grossman traccia alcune analisi per interpretare questa ferocia, respinge l’idea degli ebrei estranei alla vita dei paesi dove risiedono: “Gli ebrei prendono parte a rivoluzioni e controrivoluzioni; li trovate nella borghesia, tra gli operai e tra gli intellettuali”, spiega, “sono comunque coinvolti nelle trasformazioni sociali e nei rivolgimenti economici cui è sottoposta la società che li accoglie. Questo l’antisemitismo ideologico non può e non vuole capirlo”. E davanti alla morte che vede Grossman incitare non alla vendetta (ricorda che la Germania non è solo Hitler e Goebbles ma anche Goethe, Kant, Hegel) ma alla memoria.

“Il vento porta la sabbia sulle enormi fosse comuni; l’erba è cresciuta alta su quei campi di morte, e alti sono i pioppi che frusciano come oscuri vessilli piantati nella terra, chini in segno di lutto. Ma se per un attimo quel popolo ucciso potesse tornare in vita, se la terra si aprisse nel burrone di Babij Jar a Kiev e intorno al memoriale di Ostraja Mogila a Vorosilovgrad, se un grido lancinante si staccasse da quelle centinaia di migliaia di labbra piene di terra, l’Universo intero tremerebbe”

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