Apriamo lo studio dell’Halakhà alle donne
Come realizzare la parità di genere all’interno di un percorso ebraico ortodosso?
Uno dei miei maestri, Rav Shlomo Riskin shlita, mi ha insegnato, in diverse occasioni, che lo status della donna all’interno del sistema halachiko di oggi, costruisce e definisce la differenza del nostro stesso ebraismo rispetto ad altri contesti ebraici.
Non si tratta banalmente della differenza tra ortodossi, conservatives e riformati, elemento quanto mai banale nella sua esistenza storica, bensì la nostra generazione dovrebbe porsi urgentemente, in ambito ortodosso, la domanda sul quale sia lo spazio tradizionale halachiko di una donna nel nostro mondo. Uno spazio che a volte rischia di essere uno spazio di gioco con poca formazione educativa – mi riferisco agli spazi “rivoluzionari” estremizzati in un certo mondo modern orthodox dove negli anni abbiamo visto balli femminili con il Sefer Torà a Simchà Torà, così come letture di Meghillot halachicamente valide, ma socialmente discutibili – ed a volte l’unico spazio che dedichiamo al mondo femminile segue il filo di una visione “retrò” della donna, con il risultato che lo spazio resta limitato nel mondo della kasherut, purezza rituale, educazione dei figli.
Nella mia piccola esperienza credo che la nostra generazione si trovi di fronte alla necessità di un ripensamento profondo del “luogo” della donna nella tradizione ebraica ortodossa, senza giocare alla modernità vuota di formazione e studio, senza per questo guardare al mondo riformato che non offre una riflessione, ma elimina la diversità di genere eliminando il problema o quello che viene percepito come un problema: la diversità di genere.
Ascoltate la mia esperienza di un paio di mesi fa e proviamo a riflettere insieme.
Nei giorni di Chol HaMoed di Sukkot, quando la scuola è aperta, durante la tefillà del mattino alcune insegnanti hanno invitato le studentesse a recitare la berachà sul lulav e l’etrog.
Le reazioni sono state diverse, ma possiamo riassumerle in 4 diversi atteggiamenti, come fossero i figli di Pesach:
- Disinteresse. Non mi interessa recitare la berachà, perché non mi interessa il senso della tefillà in quanto tale.
- Non interesse alla berachà: in quanto ragazza, anche religiosa, sefardita non vedo legittimo recitare una berachà su una mitzvà “maschile”, indipendentemente dal fatto che la berachà sul lulav non è proibita ad una donna, ma la donna è esente da essa, vale a dire che se vuole può compiere la mitzvà e recitare la relativa berachà.
- Curiosità: mi avvicino alla berachà, con circospezione, recito la berachà ma resto convinta del fatto che il mio atto sia sostanzialmente inutile, se non addirittura “illecito”.
- Divertimento: recito la berachà perché mi diverte l’idea di essere una donna che compie un gesto identico a quello che fino ad ora ho visto solo compiere nel lato maschile del mio mondo.
Ognuno di questi atteggiamenti dovrebbe indurci ad una seria riflessione rispetto all’educazione femminile ed allo spazio femminile che stiamo creando nelle nostre comunità in particolare e nel mondo ortodosso in generale.
Nei cubiti di questo spazio si incontra il futuro di molte identità future dell’ebraismo mondiale, israeliano ed europeo e su tutti incombe un serio impegno educativo al femminile. Un impegno che non stravolga mondi, non dobbiamo essere rivoluzionari, ma sì inviti all’evoluzione di un atteggiamento intellettuale che non è più sufficiente o non è più valido per la generazione delle nostre figlie.
Se infatti la reazione numero uno (disinteresse) entra in un quadro generale di distanza dalla tradizione ebraica, il punto 2 (non interesse alla berachà) diventa già una sfida educativa perché, pur non imponendo al mondo femminile una coatta partecipazione alle berachot o alle letture pubbliche della Meghillat Ester, siamo obbligati ad educare alla possibilità che halachicamente questo possa accadere e che se non dovesse accadere non significa che “non siamo moderni”, così come se accade non significa che “non siamo ortodossi”.
Il punto 4 (divertimento) è drammaticamente vuoto dal punto di vista intellettuale e di studio della Torà ed è rischioso, perché essendo un gioco, una curiosità appunto, non trasmette valori, se non forse quello della aggregazione temporanea, né più né meno di una pizza insieme.
Il punto 3 (curiosità) è il vero momento della sfida. Il momento nel quale educando possiamo trasmettere una identità consapevole al femminile, senza per questo rinchiudere questa stessa identità nello spazio non più rilevante tra la cucina ed il mikwè, tra le challot e le candele dello Shabbat. In definitiva si tratta di educare la nuova generazione di ragazze allo studio della Torà come mitzvà, come elemento formativo, come elemento intellettuale, come orizzonte di identità.
Dobbiamo uscire dall’idea dello studio al femminile come veicolo per giungere al compimento di una mitzvà e comprendere che oggi, per una ragazza, la mitzvà stessa è lo studio, indipendentemente se sia obbligata o meno a farlo dal punto di vista halachiko. Una donna ebraicamente consapevole e con profonda cultura ebraica, alza il livello della identità delle nostre comunità e risolvere, senza stravolgere, l’ebraismo che in contesti non ortodossi è stato stravolto per aprire le porte al mondo femminile. Imporre ad una donna di scimmiottare l’ortoprassia maschile è offensivo per la donna stessa, così come non offrendole uno spazio di studio adeguato accanto ed insieme al mondo maschile, non stiamo educando, al massimo stiamo trasmettendo piccole porzioni di ebraicità.
Non è la prima volta che il mondo ebraico si trova di fronte al ripensamento della educazione femminile: il CHafetz Chaiim zz.l nel 1918 in Polonia si pose la stessa domanda ed appoggiò per questo la fondazione della scuola femminile Bet Yaakov ad opera di Sarah Schnirer, così come rav Yosef Dov Soloveitchick zz.l nella New York degli anni del 1960, aprì alle ragazze dello Shtern College lo studio della Ghemarà.
È giunto il momento per aprire lo spazio dello studio della halakhà al mondo delle ragazze così come la sua applicazione in ambito ortodosso, lasciando alle ragazze la possibilità di scegliere se applicare questo spazio nella propria vita, recitando per esempio il kiddush del venerdì sera, o decidere di continuare a dire: “Amen” al kiddush recitato dal mondo maschile. In entrambi i casi avremmo guadagnato la consapevolezza di una giovane donna ebrea.
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