A rischio la Memoria dell’Europa
A cosa serve davvero il Giorno della memoria? David Bidussa ci guida alla comprensione di una ricorrenza europea che rischia di essere sottovalutata da politica e società civile
Davide, a 24 anni dall’istituzione del Giorno della memoria aumenta l’antisemitismo, tanto più grave dopo le violenze il terrore di Hamas del 7 ottobre. Dove abbiamo sbagliato?
Il Giorno della memoria avrebbe potuto essere istituito con diversi obiettivi. Quello che poi si è rivelato il principale è stato di ricordare la Shoah a circa 55 anni dalla fine della guerra. Questo scopo ha poi finito per assorbire anche l’altro, che pure poteva essere meglio definito, e che invece è rimasto marginale. Mi riferisco alla necessità che, attraverso il 27 gennaio, l’Europa si riconoscesse in una data comune. Insomma, che attraverso il Giorno della memoria l’Europa costruisse un calendario civile diverso da quello dei singoli Stati-nazione.
Che differenza c’è fra scegliere una ricorrenza europea e quelle nazionali?
Il calendario civile di ogni nazione serve a dare un’idea fondativa di quel Paese. Come avviene in questi casi, è frequente che uno Stato stabilisca come data fondativa, ad esempio, quella in cui ha sconfitto un altro Stato. Per l’Europa, evidentemente, questo non era un criterio possibile. Bisognava decidere una data condivisa. In questo senso, il 27 gennaio doveva essere la data che delineasse, per così dire, l’identità dell’intero continente, non solo pensando al passato, ma soprattutto al futuro, cioè volendo indicare un’idea di Europa che si voleva costruire.
E invece?
Anno dopo anno, il Giorno della memoria è diventato una ricorrenza in cui si è raccontata la storia dei sopravvissuti invece che diventare una piattaforma politica per il futuro. È diventato una riflessione sui dolori del passato. Certo, si tratta di una lettura che ha la sua piena legittimità, ma occorre prendere atto che in questo modo il 27 gennaio ha finito per trasformarsi nella “giornata degli ebrei”, evitando così all’Europa di riflettere sulle politiche di sopraffazione e di violenza, compresi i tanti razzismi, che sono stati una caratteristica comune di molti paesi europei. Si è finito solo per interessarsi alle vittime dei lager, e si è tralasciato invece di domandarsi come e perché fosse avvenuto lo sterminio. In altre parole, puntando l’attenzione sempre sulle vittime abbiamo finito di dimenticarci dei carnefici. Al contrario, il 27 gennaio non avrebbe dovuto essere solo la ricorrenza di tutte le vittime – ebrei su tutti, ma anche apolidi, zingari, disabili, omosessuali, altre minoranze religiose e politiche – ma un giorno che avesse al centro il concetto di uguaglianza. Attraverso il 27 gennaio, l’Unione europea avrebbe potuto mettere a fondamento della propria identità il principio universalista dell’uguaglianza, sociale e politica, contro ogni idea di sovranità.
Non è andata così?
Nel 2019 l’Europa ha stabilito che la propria data fondativa dovesse essere quella del 23 agosto 1939, istituendo la Giornata contro ogni totalitarismo. Ricordando l’accordo Ribentropp-Molotov è prevalsa un’idea identitaria in cui alcuni paesi si sono presi la loro rivalsa nei confronti di tutto l’ex blocco sovietico. È una scelta, per quanto legittima, che mette in secondo piano quell’idea universalista cui avremmo dovuto tendere. È una scelta, credo, che evidenzia anche il declino attuale del continente europeo, che non sa più rappresentarsi come modello universale. Per questo, venendo alla seconda parte della tua domanda, io credo che nell’antisemitismo di oggi noi dobbiamo leggere l’effetto di una crisi europea più profonda, cioè la risposta intimorita di un continente che si vede declinare rispetto ad altre parti di mondo.
La politica italiana sembra posizionarsi sul tema della memoria tra silenzi e ambiguità. Cominciamo dalla sinistra: come giudichi la posizione espressa dal Pd, che si dibatte tra il diritto di Israele a difendersi e il cessate il fuoco umanitario?
Questa sinistra, di cui non mi vergogno affatto di dire che ne ho fatto parte, dunque che non mi è estranea, rappresenta oggi una cultura in cui si fa fatica a vedere dei principi. Mi spiego: i principi servono a costruire un sistema che permetta di orientarsi. Una sinistra che volesse dunque ragionare sulle cause del conflitto Israelo-palestinese dovrebbe avere la forza di approfondire alcuni temi.
Quali?
Occorre anzitutto avere la consapevolezza che Israele è un paese nato dalla costola dell’Europa, in cui cioè sono presenti tuttora elementi di acculturazione e mentalità prettamente europei, e che dunque non si tratta di una realtà diversa completamente da noi stessi. L’altro elemento è che quando si parla di popolo palestinese occorre liberarsi di concetti vaghi e invece approfondire temi complessi. Abbiamo seriamente studiato la realtà del mondo arabo palestinese, le scelte politiche adottate dalla dirigenza palestinese negli ultimi 30 anni, i legami di amicizia che si sono preferiti rispetto ad altri, i sistemi di interessi e di alleanze locali? Non mi pare. Invece di fare tutto ciò, la sinistra preferisce ancora oggi interpretare lo scontro fra israeliani e palestinesi come soltanto un problema di diritti negati, in una visione semplicistica e in definitiva fuorviante. Mi chiederei, ad esempio, quali battaglie di civiltà siano state mai realizzate all’interno della società palestinese per portare avanti diritti collettivi e individuali come quelli che noi oggi esercitiamo e riconosciamo caratteristici di ogni democrazia. A forza di descrivere le sofferenze e i diritti negati dei palestinesi si è finito per dimenticare le scelte politiche fatte dal mondo arabo. Il risultato è che ancora oggi in molti si rifugiano dietro stereotipi e letture consolidate, ma sbagliate, di quel conflitto, molto più complesso di ciò che appare, dove nessuno è totalmente colpevole e nessuno è totalmente innocente.
Veniamo alla destra. A parole, è tutta schierata dalla parte di Israele, senza se e senza ma. Salvo poi flirtare con i neonazisti di AFD, come la Lega di Salvini, o rifiutarsi di definirsi antifascista, come il presidente del Senato o la stessa Giorgia Meloni.
Anche qui ci sono aspetti interessanti che pongono domande credo a lungo trascurate.
A cosa ti riferisci?
È evidente che questa destra si riconosce in elementi culturali tipicamente fascisti. Essi possono essere così riassunti: 1) un’idea di comunità basata sulla omogeneità, per cui non devono esistere differenze; chi è diverso deve farsi da parte, perché disturba; 2) un modo autoritario e dittatoriale di trattare chiunque si opponga, o la pensi diversamente; 3) operare l’occupazione totalitaria degli spazi culturali pubblici e privati; 4) un’idea di sistema economico in gran parte basato sull’autarchia. È vero che a taluni di alcuni di questi aspetti sono presenti anche a sinistra, ma è vero che essi sono costitutivamente propri della destra.
Come si spiega però questa alleanza con Israele e gli ebrei?
Questa destra ha un approccio di fondo anti arabo. Su tale elemento, negli ultimi anni, si è trovato un punto in comune con quella parte di popolazione ebraica che, dopo la decolonizzazione degli anni ’50, è dovuta fuggire da molti paesi arabi, perché rischiava la vita o comunque sarebbe stata soggetta a una limitazione della propria libertà. È questo elemento antislamico e antiarabo che accomuna la destra con una parte del mondo ebraico. La destra, in altre parole, è contraria a una società multiculturale.
Cosa intendi per società multiculturale?
Anche qui occorre evitare letture troppo facili. Intendo una società dove non si impone un’unica cultura a tutti, ma al tempo stesso in cui le diverse culture non vivono separate le une dalle altre. Una società multiculturale è quella in cui culture di diverso tipo sono ammesse, purché si confrontino con dei paradigmi universalmente riconosciuti e rispettati da tutti. Una società multiculturale, ad esempio, è una società in cui convivono identità religiose diverse ma che tutte riconoscono la pari uguaglianza e la pari dignità di uomini e donne.
Questa destra è destinata a governare a lungo?
La destra vuole governare per un intero ciclo politico. Un ciclo politico non si misura nell’arco di una legislatura; può durare 5, 10 o anche 30 anni. Soprattutto, il ciclo di una forza politica dura fino a quando non esiste un’alternativa, cioè fino a quando non esiste un’intelligenza politica in grado di elaborare un programma e una leadership alternative. In questo momento la sinistra – intendo quell’area che va da Azione al Movimento 5 stelle – è priva sia di leadership che di un programma. Esistono i segretari di partito, ma questi da soli non costituiscono una leadership.
E come si costruisce una leadership?
Occorre saper raccontare cosa fare da qui ai prossimi vent’anni, sul piano sociale, economico, monetario e fiscale, culturale, della politica estera. Occorre avviare un processo di acculturazione nuovo e favorire nuove professionalità. Ad esempio avere una politica industriale chiara. Non basta dire che si è a favore delle energie rinnovabili, se poi non si spiega, oltre alle novità tecnologiche essenziali che ciò richiede, anche chi sarà favorito da questo processo. Se non si sa raccontare il futuro che abbiamo davanti, o per meglio dire il futuro che si vuole costruire, allora ci si condanna alla politica del giorno per giorno, e questa politica favorisce sempre il modello esistente, e dunque chi governa.
L’ebraismo italiano sembra stretto tra due necessità: quella di difendere le ragioni di Israele e i valori della costituzione antifascista, e quella di cercare la solidarietà nella società e nella politica italiana. A tuo avviso l’operazione sta riuscendo?
La situazione dell’ebraismo italiano è complicata. Le ambiguità della società italiana nei confronti degli ebrei si stanno infatti manifestando in più modi. Ricordo che lo scorso 17 gennaio, in occasione della Giornata del dialogo ebraico-cristiano, rav Riccardo Di Segni ha fatto una relazione alla Pontificia Università Gregoriana in cui non c’è stato spazio per l’ambiguità, e in cui ha evidenziato tutti i punti critici del dialogo. E tuttavia, alla fine ha ricevuto un ampio applauso da chi era stato oggetto di quelle critiche. In altre parole, c’è chi ha pensato che bastasse applaudire per risolvere il problema o per nasconderlo. Quindi, anche in campo politico si assiste spesso allo stesso metodo: l’ebraismo italiano sottolinea alcuni punti imprescindibili ed evidenzia alcune gravi contraddizioni, e in cambio riceve applausi e attestazioni di solidarietà. La situazione è resa complicata anche dal fatto che è difficile esprimere una netta opposizione nei confronti di chi governa. Lo storico Yerushalmi ha evidenziato come nella storia della diaspora gli ebrei hanno dovuto sempre cercare di accreditarsi, per la loro sopravvivenza, verso chi deteneva il potere. La loro caratteristica è che lo hanno fatto non da posizioni di servilismo, ma offrendo competenze e qualità professionali che in tal modo li rendevano necessari e ne assicuravano una forma di tutela. Oggi anche questa può essere una strada per ottenere tutela nella società in cui si vive, e tuttavia non sottovaluterei la necessità che l’ebraismo italiano continui a preservare un suo tratto distintivo.
Quale?
Dobbiamo salvaguardare la nostra capacità di confronto interno, dobbiamo rifuggire semplicemente dalle categorie della ragione e del torto e non si devono marginalizzare coloro che esprimono dissenso. L’ebraismo italiano sarà vivo e vitale se continuerà a promuovere la circolazione delle idee. A volte mi sembra invece che prevalga un istinto diverso, è che quanto subito da Spinoza nel 1656 ad Amsterdam sia un destino che alcuni ebrei vorrebbero riservare ad altri ebrei.
Più in generale: quanto è scomoda la posizione degli ebrei nella diaspora? Oggi devono solo difendere Israele, vittima del terrorismo islamico di Hamas, o possono anche esprimere un dissenso nei confronti di chi guida lo Stato ebraico?
È un problema enorme. Da un lato non si può rinunciare completamente a un diritto di critica, ma allo stesso tempo occorre comprendere che quel che avviene in Israele riguarda anche le democrazie occidentali. Israele sta vivendo una crisi interna derivante dalla assenza di una leadership in grado di disegnare prospettive per il futuro, con l’aggravante che questa crisi frantuma la possibilità di un serio processo di pacificazione. È una situazione che si vive anche in Europa, dove l’assenza di una leadership progressiva impedisce di immaginare un’Europa del futuro. Per questo, io credo che gli ebrei italiani possano lavorare e dialogare con la realtà israeliana, perché una soluzione trovata in Israele a questa crisi di democrazia sarebbe utile anche da noi in Europa.
Vorrei tornare al 27 gennaio appena trascorso. Prima hai detto che si dovrebbe studiare non più solo la storia delle vittime, ma anche quella dei carnefici.
Aver focalizzato l’attenzione soltanto sulle vittime ha consentito al senso comune dell’italiano medio di pensare che non ci fossero colpevoli, ma solo vittime, o che comunque i colpevoli non fossero italiani. Al contrario occorre fare i conti non solo su quello che è avvenuto nel nostro paese nel 1938, ma con tutto ciò che c’è stato prima (quando, ricordo, una parte dell’ebraismo italiano era inserito nell’establishment fascista). Rinnovare gli studi sul Giorno della memoria, allora, potrebbe significare, ad esempio, evidenziare come la discriminazione del fascismo sia nata molto prima del 1938. Si potrebbe prendere come esempio il 1924, che non è solo l’anno dell’omicidio Matteotti, ma anche quello in cui il fascismo decide che i cittadini italiani che non parlano italiano debbano essere discriminati rispetto a tutti gli altri. Non si tratta di numeri di poco conto, perché nel 1924 gli italiani in tali condizioni erano un numero nettamente superiore a quello degli ebrei italiani perseguitati nel 1938. Rinnovare gli studi sulla memoria del nostro paese significa riconoscere come il fascismo è una dittatura che ha cominciato a perseguitare i propri cittadini molto prima del 1938.
Per concludere: come costruire una seria risposta all’antisemitismo?
Credo che il nostro scopo debba essere quello di saper tracciare un percorso di idee nuovo. Il 27 gennaio va ripensato, così come il 25 aprile. In entrambi i casi si tratta non di celebrare un singolo evento, la liberazione di Auschwitz o la liberazione dal nazifascismo, ma capire come, partendo da quel dato storico, si possano costruire valori utili per leggere il futuro, e che consentano di rafforzare le nostre libertà. La liberazione del 25 Aprile non è soltanto la fine di un periodo di sudditanza, ma è soprattutto la possibilità di immaginare un’idea di futuro. Se restiamo legati agli eventi del passato, non saremo in grado di offrire alle nuove generazioni delle categorie che possano percepire come di loro interesse. Ti faccio un ultimo esempio.
Prego.
La scorsa estate un testo che ha avuto molto successo è stato quello del generale Vannacci, “Il mondo al contrario”. Ebbene, chi si oppone a quel modello di società, che libro può proporre in alternativa? Io ne cito uno: “La resistenza delle donne” di Benedetta Tobagi. Si tratta di un libro che non si limita a raccontare episodi che sono accaduti nel passato, ma trasmette le emozioni e una sensibilità che parla a ciascuno di noi, e io credo anche ai giovani. In altre parole, il nostro sforzo è di rendere attuali i valori per cui in passato si è combattuto; non riproporli tali e quali, perché il mondo è in continua evoluzione. Dobbiamo fare di termini come libertà, uguaglianza, pari dignità, non delle parole legate al passato, ma al futuro. Se non ci riusciremo, avremo lasciato spazio a chi, legato al passato, si rintana in un vuoto sovranismo.