Kolnoa!
The post, di S. Spielberg
Parlare del cinema di Steven Spielberg significa entrare nel vivo di una matrice cinematografica. Per matrice si intende una fonte in grado di generare un numero indeterminato di potenziali copie. Mi sembra l’angolo più promettente con cui osservare “The Post” (2017).
Come i caratteri mobili nella stampa di un giornale, così i movimenti di camera e gli angoli di ripresa sono sempre la matrice del dispiegarsi di un racconto. In The Post il braccio di ferro tra il potere politico e la stampa si risolve in un campo di battaglia tra scelte contrapposte: da una parte agire per impedire la diffusione di documenti riservati, dall’altra rischiare di essere incriminati per aver diffuso quelle informazioni. L’oggetto del contendere è un dossier commissionato dall’ex segretario della difesa Robert Mcnamara che mette in evidenza menzogne e ipocrisie legate alla lunga e sanguinosa guerra in Vietnam. La scelta di pubblicare il dossier da parte del Post, nonostante fosse già stato intimato al New York Times di non farlo, è il centro della vicenda.
Come sempre accade nel cinema di Spielberg, la forma è già l’espressione del contenuto. Il mestiere del giornalista diventa un corpo collettivo, quasi sempre i piani sequenza si sostituiscono al campo e controcampo, come se la redazione del giornale fosse un unico personaggio multiforme. Allo stesso tempo l’angolo di ripresa è quasi sempre dal basso: la fucina del giornale, la dinamica dell’informazione è al servizio di uno spirito terreno, appartenente alla collettività. L’unico momento in cui la camera si alza al di sopra dei personaggi è quando Katharine Graham, proprietaria del Post interpretata da Meryl Streep, deve decidere se pubblicare o meno il dossier.
La solitudine di quella scelta e le relative conseguenze a cui può portare, non fa più parte di un sentimento collettivo, di un corpo sociale, ma diventa un momento di individuazione assoluta, di cui solo il punto di vista dall’alto può essere testimone. La forza del cinema di Spielberg sta proprio nella capacità di scrivere per e con la camera, da qui nasce la meticolosa preparazione, la realizzazione di storyboard dettagliati che sono già il film sulla carta. Niente di più vicino al lavoro della scrittura, e alla diffusione a mezzo stampa, in questo sta la forza di un film che si identifica con il proprio contenuto.
L’afflato civile, come in Lincoln o in War Horse, è la stessa macchina cinema, un’arte retorica che scrive la storia come se si svolgesse davanti agli occhi degli spettatori. In questo Spielberg è un regista che si cala nella classicità con la forza di autori come George Stevens o Douglas Sirk. La storia può essere creata, non evocata o illustrata, ma divenire a tutti gli effetti una spinta che si prolunga oltre lo schermo, un’azione che non si esaurisce nella visione. Si tratta della forza di tutti gli autori mitopoietici, capaci di creare universi. La tensione che si sviluppa nei film di Spielberg come in quelli di Lucas finisce per essere un atto di presenza nel mondo, e di conseguenza aspirare di diritto a una dimensione ideale. Non si tratta quindi di edulcorare la Storia ma di indirizzarne il corso anche quando ci si riferisce a un episodio noto. Spielberg non è quindi uno storiografo ma un visionario.
The Post è allora una riflessione complessa sul lavoro di testimonianza del giornalismo, è un atto di fiducia nel mestiere di raccontare, non di esporre semplicemente i fatti ma di rischiare perché i fatti diventino qualcosa d’altro, diventino la base di una coscienza comune, di un sentire collettivo. In questo l’uso del piano sequenza è fondamentale. Invece che separare i personaggi in un contraddittorio dialettico tra inquadrature, si lavora su una coesistenza, come fossero tutti abitanti della stessa inquadratura, che è poi il mondo. Ovviamente la prospettiva è quella di una angolazione positiva, di un giornalismo non manipolatorio, ma i film servono anche a questo: a mostrarci quello che il mondo potrebbe e dovrebbe essere e non a testimoniare semplicemente ciò che è.