Placare la collera
La Meghillà di Ester nasconde la traccia divina. In questa interpretazione, Miriam Camerini fornisce una lettura che possa orientare il lettore sulle Sue tracce
La megillat Ester potrebbe concludersi alla fine del VII capitolo, quando la regina svela finalmente la sua origine e appartenenza e chiede al re Assuero, suo marito, di salvare tutto il popolo ebraico sparso nelle provincie del regno di Persia, inclusa lei stessa. Ester accusa Aman, che ha precisamente per questo scopo invitato con il re al banchetto, l’eunuco dà il colpo di grazia rivelando che Aman ha fatto pure erigere una forca per Mordechai, cioè proprio per l’ebreo che ha già una volta salvato la vita al re, il quale subito ordina: “Bene, impiccate ad essa lo stesso Aman”. Aman viene appeso alla forca che aveva eretto per Mordechai e “la collera del re si placa”: così finisce il capitolo VII e così potrebbe finire l’intera vicenda.
Invece no.
Resta il problema della condanna a morte che pende ancora sul capo di tutti gli ebrei del regno.
Nel capitolo seguente, l’VIII, Ester torna senza perder tempo a gettarsi ai piedi del re per supplicarlo (con contegno molto meno regale che nel capitolo precedente) di abrogare il decreto di sterminio, cancellare tutto e andare avanti. Il problema è però che questa è l’unica cosa che il re, con tutto il suo potere, non può fare. “La parola del re, scritta e firmata, non può tornare indietro”, così dice Assuero alla regina piangente: essa deve realizzarSI, quella parola sigillata come un carro piombato, realizzare se stessa, in modo egocentrico e riflessivo, non fare ma farsi, fare se stessa: è un fare senza complemento oggetto, che – una volta scagliato – può andare solo in avanti, come un razzo senza altro conduttore che la forza dell’ego. Ester chiede di far tornare indietro (lehashiv) la parola, Assuero risponde che la parola del re “indietro non torna” perché la legge non lo consente: un’illusione la sua onnipotenza, l’unica cosa di cui vi sarebbe bisogno in quel momento non la può fare. Non può cancellare, non SI può cancellare, può solo andare avanti, emettere e firmare un nuovo decreto che inviti e autorizzi gli ebrei a difendersi, a combattere armati contro chiunque li venga a prendere: donne e bambini assieme a chiunque altro costituisca pericolo per l’incolumità del popolo ebraico in Persia. La strage è enorme: dopo un giorno di battaglia i numeri vengono portati al cospetto del re, gli uccisi e le uccise sono 500.
A questo punto una parola nuova fa la sua comparsa nel testo: dalla difesa si passa alla vendetta. Gli ebrei, sempre per decreto reale, possono “vendicarsi” dei loro nemici: non è più difesa, non è nemmeno deterrenza, viene chiamata così: vendetta. Il massacro prosegue: una volta scatenata la folla è impossibile da fermare e – sempre con il permesso del re – è il turno degli ebrei di Susa, la capitale, di sollevarsi e ammazzare. 75.800 in totale sono gli uccisi, ma chissà poi: vai a sapere come li contano.
La parola d’ordine della Megillah e della festa di Purim, il suo motto, è venaafochu, cioè “e ribaltarono”: “ribaltarono le sorti”, coloro che dovevano esser uccisi diventarono gli sterminatori. Siamo certi che sia questo? Appendere Aman alla forca da cui doveva – nelle sue intenzioni – pendere Mordechai è il ribaltamento di quelle sorti da cui la festa deriva il nome?
Temo di no.
In questa storia di palazzi, cavalli e banchetti ci sono due regine, ma ci sono anche due re, solo che uno non compare mai: è il Re dei re, il Santo Benedetto, nascosto in qualche anfratto buio fra i soffitti d’oro e i pavimenti di marmo, travestito da makom acher, ossia “quell’altro luogo”, evocato e invocato da Mordechai nel IV capitolo come sorgente alternativa di salvezza, dovesse la regina nipote ricusare l’onore di esser lei ad agire e rischiare.
Quel Dio che nella Megillah non si vede è la divinità che infinite volte in altri episodi biblici (Giona, il vitello d’oro e il diluvio di Noè, per dire i primi che mi vengono in mente) cambia idea, si pente e consola, muta e fa tornare indietro la propria decisione e la propria collera perché essa non è idolo e non è monolite, non è freccia scoccata a caso per colpire indistintamente, bensì è materia plastica misericordiosa e attenta, che deve realizzare e non realizzarsi, che può cambiare idea e traiettoria, adattarsi a nuove circostanze, quando queste lo esigono. L’onnipotenza del Re maiuscolo si manifesta in ciò: la sua parola può tornare indietro, pentirsi e consolarsi, cambiare se stessa e la realtà, per realizzare non se stessa e non la legge, ma il bene e la giustizia. Forse allora quei capitoli che paiono superflui, un violento e macabro epilogo, vengono per insegnarci una lezione dolorosa ma fondamentale: il ribaltamento non è quello della fine del VII capitolo, con l’impiccando vivo e trionfante e l’impiccante penzoloni: quello è un ribaltamento finto, è roba vecchia travestita da novità. Il venaafochu vero sta fuori dalla storia, sta con Ester ai piedi del re mentre lo supplica di cancellare tutto, di comportarsi, per un momento unico che potrebbe cambiare la Storia, da Re vero: placare la collera, fermare il massacro.