Vivere, nonostante tutto, a dispetto delle contrarietà. Vivere “per il gusto del gioco”. E’ una delle espressioni più belle dell’ultimo libro di racconti di Isaac Bashevis Singer.
Ventuno perle legate sotto il titolo UN AMICO DI KAFKA, edito da Adelphi (332 pagine, 22 euro), che costituisce il primo racconto della serie, forse il più bello, dalle atmosfere più intime, dalla nostalgia più struggente. Ambientato a Varsavia, come altre storie polacche narrate nel testo accanto a quelle americane, dopo il passaggio dall’Europa alla nuova terra promessa.
Curato per la prima volta nel 1970 dallo stesso autore, premio Nobel per la letteratura nel 1978, che lo ha tradotto dall’yiddish, il testo dell’intero volume ha il potere che solo la famiglia Singer possiede di proiettarti direttamente nella storia accanto all’io narrante, con un’immedesimazione così totale che finisce per sovrapporre la due figure: noi e il narratore, io e l’Autore.
“Tutti giochiamo a scacchi con il destino. Lui fa una mossa, noi ne facciamo un’altra. Lui cerca di darci scacco matto in tre mosse, noi cerchiamo di impedirglielo. Sappiamo di non poter vincere, eppure qualcosa ci spinge a dargli battaglia”, afferma nelle prime pagine del libro Jacques Kohn, attore yiddish nella capitale polacca ma dal passato raccontato come leggendario nei teatri di Parigi e Berlino dove ha conosciuto i grandi del tempo, tra cui, appunto, un giovane Kafka che dice di aver accompagnato in un bordello dal quale sarebbe fuggito come uno studentello, racconta Kohn al narratore che sborsa volentieri il consueto zloty ‘per poter entrare attraverso queste storie nell’occidente europeo’ così esotico.
Ironia, tanta, autoanalisi, ritratti precisi e dettagli minuziosi raccontati in poche nitidissime pennellate sul foglio, questo è ‘Un amico di Kafka’.
Eppoi questo senso della vita e della morte che lo attraversa nelle sue manifestazioni più diverse, tra cui il sesso, metafora degli opposti: “una volta, un giovedì sera, mi ero fermato vicino al mattatoio di un piccolo villaggio e avevo visto un toro e una vacca che si accoppiavano prima di essere macellati per lo Shabbat”.
Poi c’è spazio per le storie, le credenze popolari, le discussioni tra il filosofico e il prosaico dei rabbini e dei fedeli, degli scettici e dei devoti. Come nei racconti “Qualcosa c’è” o “Destino”. Commovente è tra tutti l’incontro descritto ne “Il figlio”, in cui descrive l’arrivo a New York da Israele di un ragazzo ormai diventato uomo. Un ricongiungimento temporaneo atteso da decenni visto che il figlio, appunto, è rimasto con la madre dall’altro lato dell’Oceano.
In poche righe i sussulti del cuore e il sentimento della paternità si alternano con lucide analisi della storia universale. “Siamo spuma dello stesso mare, muschio della stessa palude” dice tra sé il padre in attesa di scorgere tra gli arrivati il suo sangue nel timore di trovarsi davanti all’impossibilità di far rinascere affetti e sentimenti dopo tanto tempo. Ma alla fine i due mondi si incontrano ed è più naturale del previsto: “Non ero mai stato tanto orgoglioso dei grattacieli e delle luci di Broadway quanto quella sera. Lui guardava e taceva. Intuii non so come che stava pensando alla guerra con gli arabi, e a tutti i pericoli a cui era sopravvissuto in battaglia. Ma le forze che governano il mondo avevano decretato che venisse a New York a incontrare suo padre. Era come se sentissi i suoi pensieri dentro la sua testa. Ero certo che anche lui, come me, stesse riflettendo sugli eterni interrogativi. Quasi per mettere alla prova i miei poteri telepatici gli dissi ‘il caso non esiste. Se è deciso che devi vivere tu vivrai. E’ scritto nel destino’. Sorpreso si voltò verso di me: ‘Ehi, leggi nel pensiero!’ E sorrise, divertito, incuriosito e scettico, come se gli avessi giocato uno scherzo paterno”.