Sono un ebreo pessimista che lotta per un futuro migliore
Nel giorno della Memoria, segnato quest’anno da critiche e polemiche, Dario Calimani ci parla dell’importanza di far comprendere cosa sia stata davvero la Shoah.
Professor Calimani, nel suo ultimo libro “L’ebreo in bilico”, lei traccia la storia dei suoi genitori, scampati alla Shoah, a differenza di altri componenti della sua famiglia. Mi ha colpito, inizialmente, questo suo confrontarsi con il silenzio dei sopravvissuti, che in qualche modo lei ha sentito necessario colmare. Perché dunque scrivere ancora della Shoah?
Perché ho scritto? Non lo so. Potrei dirle, da non esperto di Talmud quale sono, che una domanda non ha mai una sola risposta, e che alla fine siamo incerti su quale risposte scegliere per una domanda; si tratta allora di mettere insieme i vari frammenti. Certo sentivo un senso di dovere verso i miei genitori, che hanno vissuto la Shoah come molti altri, cercando di dimenticare e di sminuire quello che subirono. Ci fu all’epoca una rimozione piuttosto generale: se ne parlava poco, i testimoni non avrebbero mai pensato di scriverne, al di là del fatto che fossero o meno in grado farlo. Così sentivo il dovere di dare loro una voce. Poi, quando il libro è uscito, dalla reazione di amici e conoscenti, mi sono accorto che avevo parlato anche per loro. Molti mi dicevano infatti di essersi identificati in quello che avevano letto. Quindi, alla fine credo di aver dato voce a tanti altri.
È una storia che diventa familiare e collettiva allo stesso tempo, fino a toccare in più punti i tratti di un’autobiografia.
Io sono nato nel 1946, scrivendo mi sono reso conto che stavo dando voce anche a me. Anche io, crescendo, mi sono accorto di aver trascorso una giovinezza che non era normale, come quella dei miei coetanei, perché il passato dei miei genitori, seppure silenzioso, permaneva. Dunque anche io avevo bisogno di capire questo vissuto familiare; era un sentimento forte dentro di me. Ma, a dire la verità, non c’è solo questo.
Che altro?
Ci si rende conto che c’è bisogno di scrivere anche per gli altri, per chi in buona fede non ha ancora capito. C’è ancora chi non ha capito cosa è stata la Shoah, e quali le sue conseguenze dopo la guerra. Dovevo allora spiegare cosa sia l’antisemitismo, che non è solo la persecuzione, ma anche la battuta di spirito, quella che circola con indifferenza, e che messa una assieme all’altra formano un cumulo di pregiudizi. Ed è così che ti rendi conto che vivi nell’antisemitismo ancora oggi.
Quanto incide sulla crescita di un figlio un’esperienza così tragica dei genitori, seppure custodito nel silenzio?
Le risponderò così: ci vorrebbe uno psicanalista per comprenderlo davvero. In realtà non saprei dirle. Ha di certo inciso in me, e anche nei miei figli, molto lontani cronologicamente dalla Shoah, ma che hanno conosciuto il mio vissuto, hanno conosciuto i nonni, e attraverso silenzi e comportamenti hanno in qualche modo fatto esperienza di quel vissuto.
Lei poco fa ha fatto cenno alla necessità di scrivere “per chi non ha capito”. A che punto è secondo lei la lotta all’antisemitismo oggi?
Le ripeto che non è facile parlare di Shoah, né in famiglia né fuori. Ti domandi a cosa serva. Questo libro è il mio piccolo frammento, pensato per parlare con gli altri; eppure a volte farlo è una sofferenza, a volte credo sia inutile. Perché parlare dunque? Le confesso che sono stanco di scendere in trincea, come ancora fanno molti. E, malgrado tutto, oggi [domenica 23 gennaio, n.d.r.] ho fatto un pesante intervento alla Fenice, ma per l’incarico che ricopro mi sono trovato obbligato a farlo, perché non possiamo non aprire gli occhi di fronte al mondo che circonda.
A suo avviso, la società di oggi quanto è consapevole di quello che è stata la Shoah?
Non abbiamo mai davvero fatto i conti con la Shoah. Ogni anno svolgiamo un rito, e molti pensano di essere a posto con la coscienza. Per noi ebrei la Shoà non è un rito, la cerimonia di un giorno, invece molti pensano di fare proprio così: danno l’onore di un giorno a milioni di morti, magari confondendo la Shoà con altre tragedie; c’è infatti chi pensa di mettere le tragedie tutte insieme e poi di liberarsene tutte in una volta. Noi abbiamo un vissuto diverso: non possiamo liberarci facilmente della Shoà e della sua memoria. Al contrario, attorno a noi le cose vanno in modo diverso. Quando vediamo la scena di un funerale celebrato con una svastica, o i no vax che mimano i deportati, come facciamo a dire che abbiamo fatto i conti? Le generazioni non sono state educate. Non basta il rito. Non basta la corona di fiori, la soluzione non è questa.
Come affrontare questo tema, allora?
Io sono un pessimista. Mi verrebbe da dire che oggi c’è una sconfitta di fronte all’indifferenza e all’odio. Come possiamo essere ottimisti, quando ci sono parlamentari e politici locali che dicono che gli ebrei hanno le banche, che sono una lobby mondiale? Di fronte a una società che non combatte questi stereotipi, come si fa pensare di poter vincere?
Nonostante ciò, lei continua a intervenire e non rimane in silenzio.
È vero, il mio silenzio non è assoluto. Scrivo in continuazione contro il ritorno del fascismo; non c’è quindi una resa da parte mia, certo però, di fronte a molti esempi di antisemitismo, e ai tanti indifferenti e infastiditi che si ricordi, penso che noi che ricordiamo siamo dalla parte di un’utopia.
Non posso non chiederle cosa ne pensa delle polemiche sul “Festival delle memorie”, poi diventato “Settimana delle memorie”, organizzato a Ferrara.
Siamo di fronte a cosiddetti “intellettuali” che dicono che le memorie sono tante e poi le impastano tutte insieme, per ricordarle una volta per tutte: i tutsi, i curdi, gli armeni, gli immigrati. Certo, anche loro hanno vissuto e vivono tragedie tremende, per le quali personalmente soffro, ma come si fa a dire che siamo sullo stesso piano? Quando la Shoah è stata la raccolta da tutta Europa di ebrei, all’unico scopo di gasarli e ucciderli? Come paragonare la Shoah alle foibe o all’obbligo di green pass?
Eppure, tra i promotori di Ferrara c’è anche un ebreo.