Sono nato alla vigilia della persecuzione, vi racconto la nostra comunità
Sergio Di Veroli è una figura storica della Comunità ebraica di Roma. A Riflessi racconta episodi della sua vita che appartengono un po’ anche alla nostra.
Sergio, con questa chiacchierata tra noi mi piacerebbe che molti, soprattutto tra i più giovani nostri lettori, possano conoscere, grazie a te, una parte importante della storia della nostra comunità.
Cominciamo allora col dire che sono nato nel 1937. Significa che sul mio certificato di nascita c’è scritto di “razza ebraica,” inqualificabile definizione tuttora presente, perché i certificati anagrafici non si correggono.
Mi parli della tua famiglia?
La storia della mia famiglia è in parte intrecciata con il Risorgimento e con la storia della nostra nazione. Il mio bisnonno paterno, Sabato Di Veroli, poi maestro di musica del coro della Comunità, da ragazzo nel 1849 ha combattuto per la Repubblica romana. Un mio zio, Manlio Di Veroli, è stato un importante pianista, compositore e direttore di orchestra dell’Accademia di S. Cecilia. Fu inviato, ancora giovane, a dirigere l’orchestra a Londra. Preferì restare lì all’arrivo del fascismo in Italia. A Roma oggi gli è stata dedicata una strada. Ci fu poi un cugino di mio padre, Giorgio Di Veroli, un ingegnere di Trieste che aveva studiato in Svizzera sistemi di contabilità avanzati che secondo il grande economista Guido Carli fu colui che salvò le acciaierie italiane nel ’29; fu anche tra i protagonisti della creazione dell’IRI. L’Italia deve molto a lui se ancora oggi è una importante nazione industriale; eppure nel 1938, da direttore centrale della Banca Commerciale italiana, fu espulso dalla Banca per le leggi razziali, e dovette emigrare a New York. Nella famiglia di mia mamma, Olga Di Segni, invece, un nostro prozio era il rabbino Angelo Sacerdoti, rabbino capo di Roma dal 1912 al 1935, figura carismatica dell’ebraismo tra le due Guerre Mondiali, cui è intitolata la scuola media ebraica di Roma. Mi piace ricordare anche mio zio Ruggero Di Segni, fratello di mia mamma, avvocato, che nel dopoguerra è stato vicepresidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Insomma, nella mia famiglia vi è stato coinvolgimento e impegno sia nel contesto italiano che in quello ebraico-italiano.
E tuo padre?
Mio padre, Ettore, era l’ultimo di otto fratelli. Rimase orfano di padre a 12 anni, si laureò in ingegneria, lavorando e studiando. Cominciò dal nulla, e divenne imprenditore edile. Nel 1938, lui e Silvio, suo cugino, che lavoravano anche per importanti opere pubbliche italiane, furono radiati dall’ordine degli ingegneri. Mia madre invece era una maestra, ma dopo il matrimonio lasciò quel lavoro dedicandosi alla famiglia. Vorrei ricordare anche mio fratello Guido, z’l’, purtroppo scomparso di recente, che da giovane contribuì alla nascita del CDEC e poi da adulto ha lavorato fattivamente come consigliere per la Comunità e l’Unione delle Comunità. Eravamo una famiglia ebraica abbastanza osservante; si rispettava Shabbat, e le grandi festività, quali Kippur e Pesach, certo, un po’ all’italiana. Si era perso l’uso dell’ebraico, però mio padre recitava le preghiere ogni mattina, anche nella traduzione italiana.
Cosa ti ricordi degli anni della guerra?
Dall’età di 4 anni mi ricordo tutto molto bene, perché le condizioni di vita, con la paura perenne in cui si viveva, e l’avere due genitori molto aperti che non ci nascondevano nulla, hanno prodotto in me un grandissimo effetto di sensibilità per quanto avveniva, tenendo accesa la mia memoria. Tanti mi domandano: “come fai a ricordare tutta la tua storia a quell’età tra il 1942 e il 1945, che eri così piccolo?”. Nessuno sa come si cresce in fretta quando si capisce fin da piccoli di essere minacciati nella propria libertà di vita e poi anche di esistenza, quando gli avvenimenti giorno per giorno sono uno differente dall’altro. Per esempio, ricordo che nel 1941 fui colpito dal paratifo, malattia grave a quel tempo, e che dopo la quasi miracolosa guarigione non mi fu possibile trascorrere qualche giorno al mare, perché le leggi razziste ce lo impedivano in quanto ebrei. Ogni anno queste leggi peggioravano la nostra condizione. Nel 1942-43, frequentai le elementari all’Umberto I di Roma, nella sezione dedicata soltanto agli ebrei, e ricordo altri ragazzi che ci sputavano all’uscita. Nell’andare a scuola vidi pure gli ebrei che erano costretti dal fascismo a lavorare gratuitamente allo sbancamento delle rive del Tevere. Poi ricordo i tedeschi, la questione dell’oro e la paura dei miei genitori che non si raggiungessero i 50 kg d’oro richiesti.
Che faceste con l’arrivo dei tedeschi?
Mio padre, da un locale in un cantiere interrotto nel 1938 aveva ricavato in brevissimo tempo un rifugio di emergenza dove nasconderci e dove ci trasferimmo prima ancora della scadenza del termine per la consegna dell’oro. I miei avevano paura di una deportazione degli uomini verso i lavori forzati, ma non immaginavano il peggio. Tuttavia, passata la paura dell’oro, prevalse l’ottimismo che, in fondo, i tedeschi avevano ottenuto quello che volevano, e tornammo a casa.
E il 16 ottobre del 1943?
Noi eravamo a casa. Una mia zia, Elda Di Veroli – maestra di canto, tra le più grandi soprano degli anni Venti-Trenta, che aveva portato l’opera italiana in tutta Europa – ci chiamò quella mattina intorno alle 6, lei che viveva in Prati, e ci disse che una sua allieva, cattolica, che viveva nella zona del ghetto, aveva visto i tedeschi che portavano via gli ebrei, proprio tutti, dai neonati agli anziani e malati. La sorpresa fu di sapere che prendevano tutti: da allora percepimmo l’immensità della Shoà e il grave pericolo che incombeva su tutta la famiglia, nessuno escluso. Noi abitavamo sul Lungotevere, e, convincendo a seguirci anche mia nonna recalcitrante (lei diceva: “cosa volete che facciano a me che sono vecchia”), salimmo in 5 sulla circolare rossa, linea tranviaria dell’epoca, per andare in quel rifugio ricavato da mio padre. E fummo pure fortunati, perché poi sapemmo che più tardi, lo stesso giorno, anche sulla circolare rossa cercarono gli ebrei. Con gli zii, restammo lì in 9, in quelle due stanze, dormendo per terra, in condizioni molto precarie.
Poi che successe?
Eravamo in contatto con la Resistenza mediante una pittrice, Emilia Vitale, che ci informò che lì non eravamo al sicuro, perché mio padre nella zona era molto conosciuto, e c’era pericolo di un tradimento. Così ci trasferimmo in una pensione sicura al centro di Roma, ma anche da lì dovemmo scappare dai tetti di sera avanzata, inseguiti dai tedeschi, perché a quel tempo i nostri documenti indicavano ancora i nostri veri nomi. Andammo a nasconderci nell’appartamento di una antifascista a via Appia Nuova, e da lì ricordo i bombardamenti, le bombe che cadevano; avevamo i documenti falsi, sai, ma noi non andavamo nei rifugi per paura di essere riconosciuti. Dei nostri cugini, una famiglia di sei persone, fu proprio presa per una spiata e finì nel nulla. Infine, ricordo l’arrivo degli angloamericani proprio sotto casa nostra il 4 giugno del ’44 e lo Shabbat seguente nel Tempio Maggiore appena riaperto, con la presenza di decine di militari ebrei dell’armata angloamericana. C’è pure una foto dell’epoca. Fu un’esperienza indimenticabile.
Com’era la comunità nel dopoguerra?
Estremamente chiusa. Era come se ci fossero ancora le pareti del ghetto, anche perché il fascismo non era affatto morto, non c’era stata alcuna epurazione, e fuori dalla piazza si respirava una brutta aria di paura di attacchi di ex fascisti antisemiti. Tra l’altro dall’Unione delle Comunità veniva l’invito pressante a “non esporsi”. In particolare, si era stabilito un servizio di sorveglianza giorno-notte da possibili attacchi alle scuole, che all’epoca erano in Lungotevere Sanzio. Io partecipai alcune volte a questo servizio.
Mi parli della tua giovinezza e della tua partecipazione alla vita della comunità?
Prima di iniziare a parlare della mia partecipazione alla Comunità, desidero dirti qualcosa sui primi due Rabbini capi che si sono susseguiti nella mia prima esperienza comunitaria. I Rabbini capo in una comunità religiosa danno un’impronta a tutta la vita della Comunità. Subito dopo la guerra, ritornò dalla Palestina il Capo-rabbino David Prato, che come ebreo straniero aveva dovuto lasciare l’Italia nel 1938, per le leggi razziste.
Rav David Prato, con cui ho fatto il Bar-Mitzva, seguiva l’ortodossia benevola italiana, ad esempio di Shabbat si suonava l’organo in accompagnamento del coro. Era un oratore con una voce potentissima e dal palco faceva i suoi commenti settimanali alle Parashiot. Morì nel 1951. Il Consiglio della Comunità dell’epoca offrì la cattedra al prestigioso Capo-rabbino di Livorno Rav Alfredo Sabato Toaff. Toaff padre, avanti negli anni, preferì rifiutare l’incarico e indicò suo figlio Rav Elio Toaff come Capo-rabbino. Elio Toaff ha impregnato della sua personalità e del suo carisma 50 anni della Comunità. Era persona con una esperienza di Comunità di grandezza medie, come Ancona e Venezia, e all’inizio sembrava preoccupato e timoroso di fronte alla conduzione religiosa non facile di Roma, divisa sempre tra le due parti, la piazza e la borghesia. Quindi la sua condotta nei primi anni fu estremamente conservativa e anche di ritorno a un ebraismo più rigoroso, come per esempio alla proibizione dell’organo di Shabbat. Da qui la paura di tutte le iniziative di apertura come il Kadimah di via del Gesù, di cui posso parlare dopo, e anche parzialmente della Consulta della Comunità.
Mi parli di rav Toaff?
Una risposta
Molto interessante e coinvolgente …
Il contrasto tra la “borghesia” e la “piazza” di cui parla l’autore di queste memorie è un fatto storico complesso.
Non è solo un problema di acculturazione o meno.
Bensì di sfortunate circostanze : la “borghesia” che aveva sostanzialmente retto tutte le Comunità ebraiche da secoli e millenni ha perso a Roma una possibile influenza e a fronte di questa debolezza un paio di capi popolo hanno estremizzato la polemica … dietro la bandiera dello Stato d’Israele … Per altro buona parte della “piazza” ha potuto capire prima della “borghesia” che i cosiddetti intellettuali di Sinistra e gli esponenti del maggiore egemonico partito della Sinistra non erano poi così tanto comprensivi della necessità di difesa di Israele.