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I ricordi di guerra dell’avv. Ugo Pacifici Noja: la guerra del Kippur, vissuta con gli occhi di un bambino.

Israele fin dalal sua nascita ha dovuto combattere per ressitere alle aggressioni. Una della guerra più difficili è stato quella del Kippur (1973)

Il 6 ottobre 1973 era un sabato.

In quel giorno cadeva la ricorrenza più importante di tutto il calendario ebraico: lo Yom Kippur.

È, come tutti sanno certamente, il momento in cui anche persone lontane dall’osservanza quotidiana dei precetti, si ritrovano insieme ai parenti al Tempio per ascoltare il suono dello shofàr. Nello Stato di Israele ci si preparava alla celebrazione con il rigore che la solennità e il rispetto del rito richiedono.

È stato detto che colpire persone raccolte in preghiera è due volte criminale. Non solo perché sono assorte nella meditazione che la liturgia richiede, ma perché esse sono, in quel momento, più vulnerabili e non si attendono alcun tipo di offesa. Nel caso dello Yom Kippur – alle osservazioni essenziali sul rispetto del fedele di ogni culto religioso – si aggiunge il periodo di astensione dalla consumazione di cibi e bevande (di qualsiasi genere) a titolo penitenziale per un periodo di ventiquattro ore.

Israele insomma al periodo sabbatico ordinario aggiunge i precetti per il Giorno dell’Espiazione. Una sorta di “doppia festa”, se si volesse dir così.  All’osservanza sono chiamati tutti. Uomini e donne. E con i limiti di età stabiliti dai precetti anche i bambini.

Fuori da Israele ci si appresta a vivere la festa con apprensione per le sorti dello Stato. Nell’aria aleggia forse  l’ipotesi di uno scontro. Alla guida dello Stato la Premier Golda Meir. In generale, amata dal suo paese. Talora contestata. Normalmente apprezzata.

Alla guida del dicastero della difesa sta il Generale Dayan che, qualche volta, nei giornali italiani dell’epoca è citato, secondo lo stile un po’ ottocentesco, “Sua Eccellenza Dayan”. Come normalmente sono chiamati (all’epoca) i generali di corpo d’armata nei documenti ufficiali.

Le consultazioni sono, come si legge nello stile latineggiante dell’epoca, “diuturne”. La quotidianità di quei colloqui è stata consegnata agli annali della storia. Difficile conoscere nel dettaglio il contenuto di quei colloqui al di là delle rappresentazioni ufficiali.

La guerra è nell’aria.

I vertici del paese vogliono sapere quando il conflitto si materializzerà. Un numero sciolto del Corriere d’Informazione in edizione straordinaria mostra sulla stessa pagina una foto che registra l’esultanza del grande Sandro Mazzola per una rete segnata e avverte i lettori di un viaggio di Fanfani a Milano. Nel box (che all’epoca si chiamava “riquadro”) la notizia dei combattimenti che “in cielo e in terra” impegnano “arabi e israeliani”.

Il nonno, Benvenuto Pacifici, che è stato il primo segretario della Federazione sionistica italiana nella Milano del secondo dopoguerra, comincia subito il giro di telefonate. Lopez, Ottolenghi, Elia, Schlesinger. Sono i nomi dei suoi amici. Sono le persone che incontra al Tempio. Quelle che vede alla Federazione. Con loro e con tanti altri di cui non ho ricordo a causa dell’età, inizia subito il programma di raccolta fondi. Ogni organo di deputazione, ogni comunità si mobilita.

A me, che sono un bambino, si cerca di rimandare (pur nella difficoltà del momento) una sensazione di tranquillità. Sento ancora la voce di mia mamma che mi dice di stare tranquillo. Che l’esercito israeliano è bene addestrato.

Sono un bambino e come a tutti i bambini, anche a me, si vuole dare serenità e calma. Il nonno ogni tanto ha gli occhi rossi. A me dicono che dipende dal vento. Non ne sono proprio sicuro. Ma la voce dei miei genitori è calma e rassicurante. Come al solito. E a me questo basta.

Poi la notizia che le ostilità sono terminate. Chiedo se tutte le sigarette che ho visto accendere e i caffè che ho visto bere per seguire fino a tardi i “bollettini radio” comportino una violazione del Kippur. E se si debba “recuperare” per coloro che, in buona fede, l’hanno violato.

Mio nonno mi abbraccia. Mi rassicura. No. Quest’anno è andata così, mi dice.

Quando si stacca da me, ha di nuovo gli occhi arrossati dal vento. Il che mi stupisce perché siamo in casa. E di vento non ne soffia neppure un filo.

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