Pesach: uscire dall’Egitto, oggi
I nostri Maestri hanno notato che nei passi della Torà – nel libro di Vaikrà (cap.23) e nel libro di Devarim (cap.16) – in cui sono ricordati i Shalosh Regalim, le tre feste di pellegrinaggio di Pesach, Shavuot e Sukkot, troviamo per tre volte il richiamo alla simchà, cioè alla gioia, a proposito della festa di Sukkot , una volta sola per la festa di Shavuot mentre non la troviamo affatto per Pesach.
Un midrash (Pesiktà de-Rav Cahanà) spiega che la morte di tanti egiziani attenua le nostre manifestazioni di gioia, considerazione questa di sensibilità e di valore umanitario che trova riscontro nelle preghiere festive di Pesach nel fatto che recitiamo per intero i salmi di Hallel solo nei primi due giorni di Pesach. Ci sono anche altre spiegazioni sul fatto che a proposito di Pesach non venga ricordata la simchà, in ogni caso, nel contesto di tutti i significati straordinari che riveste questa festa, che ricordiamo nelle preghiere come zeman kherutenu “tempo della nostra libertà”, il midrash ci propone di riflettere su situazioni nelle quali questi giorni di festa solenne non possono nascondere i motivi di preoccupazione e ci volgono verso forme di più contenuta allegria, che pure è evocata con l’augurio di “Pesach kasher vesameach”.
Questo stato d’animo in chiaroscuro, in cui la letizia della festa si fonde con altri sentimenti assai contrastanti, è proprio quello che proviamo in questo Pesach, nel quale il piacere di poter nuovamente svolgere il Seder, di trascorrere finalmente giorni solenni insieme alle persone care della famiglia e della Comunità, si fonde con lo sgomento che ci provocano le notizie e le immagini della guerra in Ucraina e altri numerosi tristi eventi in varie parti del mondo, con particolare preoccupazione per i nuovi tragici atti di terrorismo e di violente provocazioni in Israele, mentre ancora molteplici situazioni di incertezza e sofferenza gravano su tanta parte dell’umanità.
I nostri Maestri, come riportato in un celebre passo della Haggadà di Pesach, ci insegnano che “In ogni generazione ciascuno deve considerare come se egli stesso uscisse dall’Egitto”; ci sollecitano a considerare il ricordo della liberazione dalla schiavitù in Egitto come un evento che ci riguarda personalmente, nel presente della nostra vita in ogni tempo. Ci domandiamo quindi che cosa significhi per noi oggi ricordare la liberazione dalla schiavitù, ricordarlo nel nostro presente, in questo tempo di angoscia e di inquietanti interrogativi. La prima risposta, che effettivamente trova già sollecito riscontro è quella concreta dell’aiuto che possiamo e dobbiamo porgere direttamente o attraverso le varie iniziative, all’interno e all’esterno dell’ambito ebraico, alle popolazioni maggiormente sofferenti e bisognose di soccorso che giungono anche fra noi.
Ci sono però interrogativi sul presente e sul futuro dei popoli, interrogativi in cui ci chiediamo cosa fare per dare al mondo un indirizzo diverso, vorremmo poter parlare di pace mentre invece essa appare di nuovo e ancora di più lontana, quasi una sorta di utopia irrealizzabile.
La Torà ci insegna che non ci sono scorciatoie che conducano rapidamente alla pace tra i popoli.
Il racconto biblico ci riporta il manifestarsi della violenza come un tragico aspetto connesso al libero arbitrio che D.O ha concesso all’uomo, la violenza si manifesta quindi come forza fratricida fin dall’inizio dell’umanità, tra Caino e Abele; la guerra appare poco più avanti nel racconto della Torà, attraverso il personaggio di Nimrod (Genesi 10,8-9), al quale il midrash attribuisce una duplice identità, in un primo passaggio (Talmud B. Chulin 89 a) è identificato fra coloro che lanciarono l’orgogliosa sfida all’Eterno con la costruzione della “ torre di Babele”, un progetto segnato dal disprezzo per la vita e per la dignità dell’uomo, allorquando – riporta ancora il midrash (Pirkè de-Rabbi Eliezer)- lo sfracellarsi a terra di uno dei costruttori suscitava meno attenzione che il precipitare degli attrezzi e del materiale per il lavoro; successivamente lo stesso Nimrod è identificato dal midrash come il sovrano, ricordato nel racconto biblico con il nome di Amrafel, al quale la Torà attribuisce l’iniziativa di aver scatenato il primo conflitto per soggiogare i popoli più deboli (Genesi 14,1 e commento di Torà Temimà in loco); questa duplice identificazione che il midrash sviluppa intorno al personaggio di Nimrod ci ricorda il quadro deprimente in cui si scatenano i conflitti, quando l’uomo è mosso da smisurata ambizione, dal desiderio di sottomettere i più deboli per manifestare la propria forza, quando la vita di coloro che sono a lui sottoposti non ha alcun valore se non quello di essere strumento dei suoi disegni, quando infine l’ambizione di gloria alimenta la follia di onnipotenza dell’uomo.
D’altra parte il fatto che persino il patriarca Abramo, che pure la Torà ci propone come preclaro esempio di accoglienza e di umana attenzione anche nei confronti di malvagi come gli abitanti di Sodoma, persino lui si vede costretto a prendere le armi per andare a liberare il nipote Lot che era stato preso prigioniero, questo episodio ci anticipa forse la conclusione, triste ma inesorabile, per cui in alcune situazioni la risposta armata ad una violenza subita è inevitabile, come di fatto viene poi riconosciuto anche nelle norme di halakhà relative alla guerre di difesa.
Nel racconto biblico assistiamo sullo sfondo al succedersi di grandi potenze che impongono il loro dominio sottomettendo i popoli più deboli, fino a quando a loro volta vengono schiacciate da un altro popolo più forte e agguerrito. Questo è effettivamente il corso della storia, segnato dalle varianti della forza e delle alterne relazioni trai popoli come ci appare nei suoi eventi eclatanti fino ai giorni nostri; tuttavia c’è un altro percorso, che sta a noi scoprire, che è il progetto di D.O, che parte dalla creazione e si sviluppa nel corso del tempo e porterà un giorno alla venuta del Maschiach, nel quale un ruolo importante è affidato proprio a noi, popolo ebraico, particolarmente a partire dal momento in cui D.O ci ha fatto uscire dalla schiavitù in Egitto. In questa diversa prospettiva della storia dell’uomo, che ci riguarda e ci coinvolge direttamente, possiamo cogliere la centralità del ricordo della schiavitù e dell’uscita dall’Egitto considerando quanto spazio la Torà attribuisca a questo evento con decine di comandamenti, fino a renderlo un elemento fondamentale, un pilastro su cui si regge tutto il sistema normativo educativo e di pensiero dell’ebraismo.
Che cosa significa allora nella nostra generazione o meglio a noi oggi in questo tempo e in questo frangente considerare “Come se noi stessi uscissimo dall’Egitto”?
Innanzitutto quando la Torà ci prescrive di ricordare l’Uscita dall’Egitto non sta semplicemente riferendosi ad un luogo e ad un evento del passato, ci dice che dobbiamo in ogni tempo prendere quanto più possibile le distanze da tutto ciò che l’antico Egitto ha rappresentato, cioè una società basata sull’oppressione del più debole, sulla crudeltà, sullo sfruttamento della schiavitù, sulla ricchezza frutto di guerre e di dominazione, sull’idolatria e su costumi di vita depravati, uscire dall’Egitto significa quindi ben più che ricordare il passato, significa operare nel segno del chesed, della compassione della giustizia e della misericordia come espressione di una società che si affida all’esempio dell’Eterno anziché alle seduzioni dei falsi idoli.
Il ricordo della liberazione dalla schiavitù d’Egitto è innanzitutto il presupposto su cui si fonda tutto l’edificio dei precetti della Torà, cioè di tutte le 613 Mizvot, infatti, come ben sappiamo, questo ricordo è posto all’inizio dei Dieci Comandamenti nelle Tavole del Patto -“Io sono il Signore tuo D. che ti ho fatto uscire dall’Egitto dalla casa degli schiavi”- i Dieci Comandamenti, secondo l’interpretazione dei nostri Maestri, rappresentano per l’appunto la sintesi tutte le 613 Mizvot.