L’antisemitismo è sempre più legittimato
Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio sull’antisemitismo presso il CDEC, analizza le tendenza su pregiudizi e istigazioni all’odio in Italia
Betti Guetta, tu sei la responsabile dell’Osservatorio sull’antisemitismo, che pochi giorni fa ha presentato l’ultimo rapporto. Che anno è stato quello appena trascorso?
È stato un anno particolarmente drammatico, come immaginerai, soprattutto negli ultimi mesi, perché dopo il 7 ottobre abbiamo registrato un’impennata di casi. Siamo infatti passati da circa 20 episodi di antisemitismo al mese a oltre 70. In totale abbiamo registrato 454 episodi rispetto ai 241 del 2023. Si è trattato, anche per noi abituati a studiare questi episodi, di un dato traumatico, arrivato dopo una crescita progressiva dei casi che si registrava da anni. L’antisemitismo, cioè, era in crescita già prima del 7 ottobre, ma dopo quella data e l’avvio della guerra è come se si fosse data la stura a un atteggiamento diffuso e “legittimato” ad esprimere sentimenti ostili verso Israele attingendo a un archivio spesso antiebraico. In un clima del genere è aumentato il senso di spaesamento e di solitudine della comunità ebraica, accompagnato anche da una sensazione di rischio.
In che modo raccogliete i dati che poi presentate nel rapporto annuale?
Abbiamo diversi strumenti di rilevazione; da circa 10 anni, grazie alla cooperazione con Ucei, ci avvaliamo dell’Antenna antisemitismo, un servizio cui è possibile rivolgersi per denunciare gli episodi di antisemitismo – episodi subiti o di cui si è stati testimoni. Al numero verde arrivano telefonate o email e segnalazioni via WhatsApp di diversa natura, quindi il nostro compito è anche “setacciare”, per distinguere generici allarmismi da effettivi casi di antisemitismo, espressioni di disagio sociale. Vorrei ricordare inoltre che insieme a Ucei collaboriamo al progetto FADE, nato in ambito europeo, che ci consente di aumentare la nostra conoscenza del fenomeno. L’Osservatorio monitora e processa durante l’anno un numero crescente di post ed episodi di antisemitismo in rete.
Come funziona?
Si tratta di un metodo consolidato, che ci permette un’analisi pressoché quotidiana volta a monitorare l’antisemitismo su una serie di siti, veicolo di odio, ideologia complottista, fascista o estremista di sinistra. In questo modo siamo in grado di monitorare le diverse tipologie dell’odio che corre sulla rete, i linguaggi antisemiti da ricondurre a gruppi ben definiti.
Quindi l’Osservatorio riesce ad avere una visione estesa del fenomeno?
Direi di sì. Attraverso l’esame dei giornali, della tv, del web
, delle segnalazioni dirette e indirette che ci arrivano, copriamo buona parte del territorio nazionale.
Che cosa si ricava dall’analisi dei dati?
Quando si parla di dell’antisemitismo e di come reagire molti credono che la questione debba essere trattata a livello alto, soprattutto dalla politica. Certo questo aspetto è importante, ma sicuramente non è l’unico. Direi che invece i dati raccolti dimostrano come ci sia un profondo e lungo lavoro da svolgere in campo sociale non solo sull’antisemitismo ma anche sui pregiudizi come forma mentale.
A tal proposito, mi ha colpito il fatto che il report inizi facendo riferimento a dati che apparentemente non hanno a che fare con l’antisemitismo, come quelli legati alla pandemia e alla disoccupazione.
In realtà sono tutti fattori che hanno una forte incidenza sulla percezione del mondo circostante, e dunque anche dei pericoli, reali o immaginari. Già da alcuni anni abbiamo messo in evidenza come alcuni fattori, quali la disoccupazione o il disagio sociale, siano correlati proporzionalmente all’ostilità verso chi è visto come un pericolo. A seconda delle stagioni, per così dire, il pericolo sono i rom, gli immigrati, oppure gli ebrei. Situazioni di fragilità sociale, come quella di chi vive in zone disagiate, o è senza lavoro, distorcono la comprensione del mondo, minano le certezze che si erano sempre possedute, e che si basavano su una certa idea della famiglia, dello Stato, della società circostante. È indubbio che il processo di globalizzazione così come la crescita di informazione, di fake news, di complessità confusa e contradditoria ha prodotto disorientamento, pensiero complottista e insicurezza.
Puoi fare alcuni esempi?
Durante la pandemia, è emerso chiaramente come molti dessero colpa del Covid agli ebrei e a Israele, accusandoli di essersi arricchiti attraverso i vaccini. Più in generale la ricerca dimostra come l’antisemitismo, anche se può essere legato a fenomeni estemporanei, non è mai improvviso e occasionale, ma nasce da sentimenti e percezioni che si protraggono nel tempo e che quindi può essere compreso se lo si studia in modo diacronico. E così, per fare un altro esempio, durante la prima crisi economica del 2007, organizzando dei focus Group che non avevano come tema l’ebraismo e gli ebrei, tuttavia era evidente come molti, partendo dal disagio provato di fronte alla crisi, sfogavano la loro frustrazione individuando anche gli ebrei come i responsabili. Infine, tutti gli studi mettono sempre in evidenza come la popolazione italiana abbia un’errata è sovrastimata percezione della presenza ebraica nel nostro paese. Basti pensare che oltre il 65% degli italiani credono che gli ebrei siano pari a una cifra che va da 200.000 a un milione, contro i 40.000 scarsi effettivi. Inoltre altri pregiudizi sono quelli per cui gli ebrei costituiscano una lobby chiusa che altera la gara sociale, o che approfitti della Shoah per massacrare i palestinesi, un’accusa purtroppo ricorrente in questi giorni.
Al contrario, alti tassi di istruzione hanno la capacità di diminuire il pregiudizio antisemita?
Non sempre. Anche persone di cultura e con professioni socioeconomiche superiori esprimono pregiudizi e stereotipi. In generale, certo, ci si può aspettare che tassi di istruzione più alti corrispondano a sentimenti antisemiti più bassi. E tuttavia, come dicevo prima, il lavoro sociale che è importante fare non può che partire anche dalle scuole, dove registriamo spesso forti pregiudizi. Un tema che stiamo mettendo a fuoco, ad esempio, è il pregiudizio portato a scuola dai figli degli immigrati arrivati in Italia una o due generazioni fa, che talvolta tendono a riflettere a scuola gli stereotipi ascoltati in famiglia nei confronti degli ebrei e di Israele, con il rischio di influenzare anche il resto della classe. C’è dunque la necessità di disinnescare il pregiudizio che può emergere nella popolazione di origine araba o di fede islamica. Certo la situazione italiana non è ancora grave come quella ad esempio in Francia, e questo ci dà speranza che ci sia una maggiore possibilità di recuperare e ridurre il pregiudizio antisemita.
Dalla vostra ricerca è possibile individuare dei luoghi geografici in cui il pregiudizio è più forte?
Non si può generalizzare, anche perché i nostri report mostrano come le denunce siano più o meno distribuite su tutto il territorio nazionale. Se dovessi indicare un trend, mi sembra che il centro sia la parte del paese da cui provengono la maggior parte delle denunce, un dato legato probabilmente al fatto che a Roma vive la popolazione ebraica più numerosa.
Il Giorno della memoria funziona nella prevenzione del pregiudizio antiebraico?
Anche qui, non è possibile dare delle risposte assolute. Soprattutto in un momento come questo, in cui avvertiamo in maniera molto opprimente un sentimento antiebraico, verrebbe la tentazione di prendersi almeno una pausa di riflessione. Certo, dopo 24 anni dobbiamo farci molte domande, e chiederci se e dove abbiamo sbagliato. Rispetto al passato, ad esempio, vedo che c’è un stato un lavoro importante, ma ancora da approfondire nelle scuole. La critica che mi sentirei di fare, ad esempio, riguarda la percezione che l’ebraismo italiano ha dato di sé. A volte, infatti, è prevalso, per la necessità di tutelare la memoria, un’immagine troppo vittimista degli ebrei e dell’ebraismo, che ha creato l’effetto paradossale di generare maggiore intolleranza. Certo, la memoria della Shoah è necessaria, ma forse dovremmo puntare anche ad esprimere un’immagine nell’ebraismo legata alle nostre tradizioni, che certo sono ben anteriori alla Shoah.
Durante il Festival di Sanremo ha generato molte polemiche la frase di un giovane cantante, il quale dal palco a dichiarato che occorresse fermare il genocidio. Secondo gli standard dell’Osservatorio questa è una forma di antisemitismo?
Dovremmo analizzare con calma questo e tutti gli altri dati che stiamo ricevendo in questi giorni. Direi, però, che più che un caso di antisemitismo frasi come queste, senza alcun contraddittorio e decontestualizzate, possono essere classificate come frasi subdole di istigazione all’odio.
Come pensi che sarà la reazione della dell’ebraismo italiano di fronte ai picchi di intolleranza pregiudizio che stiamo registrando in questa fase?
La mia sensazione che l’ebraismo italiano si compatterà, una reazione tipica di tutte le minoranze di fronte a situazioni di crisi. Già adesso è evidente che sono molti gesti di solidarietà all’interno dell’ebraismo italiano. Non credo invece che ci sarà la tendenza a lasciare questo paese, ad esempio andando in Israele.
E per quel che riguarda la società italiana? L’aumento dell’antisemitismo è un trend che si confermerà anche nel prossimo futuro?
Ho il timore che stiamo all’interno di un’onda di un’onda lunga di pregiudizio, che dunque si manifesterà anche nel prossimo futuro. Assistiamo a molti esempi che lasciano intuire come i rischi ci siano. Penso ad esempio l’amministratore delegato della Rai o costretto a ricevere una scorta. È un dato oggettivo che oggi i tanti che manifestano il loro antisemitismo si sentono più forti, in qualche modo legittimati a esprimere i sentimenti che avevano anche prima, ma che tenevano nascosti. In altre parole, oggi assistiamo a manifestazioni antisemite non solo sul web, ma anche nella realtà quotidiana. la distorsione e la relativizzazione della Shoah è un dato di fatto. Basta vedere ai cortei nelle strade o a quel che avviene nelle università. Purtroppo oggi l’antisemitismo è una macchia d’olio che si allarga. Occorre dunque progettare azioni strategiche.
È un lavoro difficile?
Credo che dovremmo, ciascuno nelle proprie competenze, riuscire a far comprendere come i problemi che oggi abbiamo davanti nascano da situazioni storiche complesse. Al contrario, viviamo in una società schiacciata sul presente, che ignora il passato, in cui il presente si autogenera, creando narrazioni tutte schiacciate sull’oggi. Questo rende estremamente difficile comprendere la complessità, ad esempio di quel che avviene in Medio Oriente.