Il suono di Israele
Cosa c’è dietro il segreto di un grande film? Il lavoro di tanti artisti sconosciuti. Oggi vi parliamo di uno di loro: l’israeliano Alex Claude.
Parlare di cinema israeliano significa anche raccontare il contributo fondamentale che alcuni grandi professionisti hanno dato a una cinematografia profondamente vitale. Alex Claude è sicuramente una figura imprescindibile, un sound designer capace di portare una ventata di modernità attraverso un proficuo sodalizio professionale con alcuni dei più interessanti registi israeliani: Amos Gitai, Samuel Maoz, Rama Burshtein, Yossi Madmoni, Shira Geffen, Dover Koshashvili.
Vincitore per sei volte del riconoscimento assegnato dalla Israeli Film Academy per il miglior suono, il suo lavoro è stato in grado di plasmare la colonna sonora di un film rendendola materia viva, fino quasi a farla divenire il vero portato del racconto. Un esempio a riguardo è la grande intensità sonora, che finisce per divenire esperienza sensoriale, del film di Samuel Maoz Lebanon, dove gli echi della guerra vengono percepiti prima dall’orecchio per poi essere processati dalla coscienza.
Alex è purtroppo scomparso troppo presto, ormai due anni fa, ma il suo lavoro e il suo approccio rimangono a testimoniarci quanto il cinema sia un lavoro collettivo, che si nutre della collaborazione tra tutti i reparti coinvolti.
Ho avuto la fortuna di partecipare alla postproduzione di tre film di Amos Gitai, Ana Arabia, Tsili e Rabin: the last day e di vedere come la collaborazione ha preso forma, passando attraverso il coinvolgimento di altre due figure fondamentali, Stefano Grosso, montatore degli effetti sonori e Giancarlo Rutigliano, missatore. Secondo le parole di Stefano, che con Alex Claude ha stabilito un sodalizio profondo, uno dei più importanti contributi all’impostazione generale del sound design è stato un lavoro creativo di integrazione tra la musica, il dialogo e gli effetti sonori. Un percorso emozionale in cui i diversi elementi interagiscono in un lavoro di contrappunto, una vera e propria partitura, che obbedisce a intuizioni viscerali a cui Alex Claude era solito prestare grande attenzione.
Partendo quindi da una suggestione in grado di suggerire il tono generale di una scena, l’approfondimento successivo si spostava su un grande lavoro sul dettaglio. Un interessante esempio, sempre riportato da Stefano Grosso, è quello di ipotizzare un montaggio articolato di suoni a commento di una scena in cui si susseguono un numero elevato di azioni, ma poi decidere di sottrarre a un’azione in primo piano il suono corrispondente che ci si aspetterebbe.
Un uomo deposita un masso a terra senza che questo emetta alcun rumore. Questo tradimento delle aspettative, non fa che rilanciare l’attenzione dello spettatore, ponendolo in una posizione percettiva precisa: è il suo orecchio che compone il film, senza il suo contributo, quella partitura non esisterebbe. Questo approccio si basa su un rapporto di fiducia con lo spettatore e di profondo rispetto.
Come sottolinea il teorico del suono Michel Chion, al contrario dell’occhio che attraverso le palpebre obbliga lo spettatore a una interruzione meccanica della fruizione delle immagini, l’orecchio non cessa mai di ascoltare. L’orecchio non ha le palpebre. Per questo nel cinema il suono è l’elemento in grado di veicolare emozione e senso prima dell’immagine. Può sembrare un paradosso, ma in realtà è come se l’anima invisibile dell’immagine, e quindi la sua essenza, fosse il suono.
Alex Claude questo lo aveva ben presente, così come aveva presente le conquiste della tecnologia. Sempre ragionando sul filo del paradosso, una delle conquiste più importanti del suono digitale è stato il silenzio. Poter ascoltare il silenzio in una sala cinematografica è stato possibile solo quando il segnale digitale ha eliminato il rumore di fondo proprio di tutti i sistemi di diffusione analogici. Una delle conquiste rivoluzionare del suono contemporaneo è quindi il silenzio. Questa riflessione si accompagna all’esempio del masso poggiato a terra senza emettere rumore, un equilibrio tra pieni e vuoti che è per sua natura musicale.
L’approccio di Alex Claude in questo senso è stato profondamente musicale, cosa che lo ha portato anche a occuparsi del montaggio delle musiche se non della composizione stessa della musica in diversi film per cui ha lavorato. Immigrato dalla Polonia in Israele negli anni ’80, inizia a lavorare come sound designer per il teatro per poi iniziare a lavorare nel cinema con Amos Gitai. Dell’esperienza dello spettacolo dal vivo si porta quindi la forte relazione con il pubblico e la consapevolezza che lo spettatore sia creatore del film tanto quanto il regista.
Il sound designer, come il montatore, è quindi una sorta di medium capace di far avvicinare regista e pubblico nella terra ignota della proiezione. Non credo di esagerare affermando che Alex Claude abbia dato forma al cinema israeliano contemporaneo, proprio considerando l’arte cinematografica come un’arte plastica, plasmabile, percorribile a passo di danza come nel film di Samuel Maoz, Foxtrot.
Oggi esce nelle sale il film di Carlo S. Hintermann, The book of vision.
Guarda il trailer
Ascolta l’intervista a Hollywood Party