Il mio impegno per la scuola: un modo per riparare il mondo
Marco Rossi Doria, iscritto alla comunità di Napoli, ha iniziato fin da giovane a lavorare come maestro di strada. Da anni si spende per aiutare i più deboli a non restare indietro. A Riflessi spiega cosa anima la sua azione
Gentile professore, la sua vita è segnata dall’impegno costante nel mondo della scuola. Dallo scorso aprile è stato nominato presidente dell’Impresa sociale “Con i bambini”: di che si tratta?
Per capire la nascita di “Con i bambini” che presiedo occorre innanzitutto sapere che in Italia – la settima o l’ottava nazione al mondo per ricchezza – vivono 1,5 milioni di bambini in povertà assoluta e altrettanti in povertà relativa. Questo significa che, nel contesto di una società ricca, e in cui i figli sono sempre di meno, 1/3 di tutti i nostri minori è in emergenza o difficoltà, riferita alle condizioni di vita e all’offerta culturale. Insomma, questi 3 milioni di bambini partono svantaggiati; imparano poco, anche quando ottengono un titolo di studio, come certificato dall’Istat e dai dati Invalsi. In questa situazione c’è stata una lunga azione, da parte delle associazioni del terzo settore e delle fondazioni bancarie, per proporre di contrastare la crescente povertà educativa dei nostri bambini e ragazzi (l’Italia è stato infatti l’unico paese ad aver tagliato così tanto le risorse per l’istruzione e il welfare per l’infanzia negli ultimi anni, circa 7,5 miliardi dal 2008 in meno all’istruzione). Nel 2014 il governo ha dato seguito a un credito d’imposta per le fondazioni bancarie, da destinare alla costituzione di un fondo di contrasto della povertà minorile. Il fondo ha già investito 302 milioni di euro per progetti in essere che coinvolgono oltre 600 organizzazioni e ha in animo di continuare questa azione con i crediti d’imposta delle prossime annualità, monitorando con cura i risultati, cercando di trovare dei modelli d’intervento che, se efficaci, possano poi essere replicati. Dunque, l’impresa sociale oggi fa bandi per dare sollievo alle varie fasce d’età, in tutta Italia, collaborando con le scuole e creando veri patti educativi. Finora, attraverso questi “Patti educativi”, abbiamo raggiunto circa mezzo milione di bambini.
Lei è stato maestro di scuola, insegnante all’estero, poi sottosegretario all’istruzione nel governo Monti; è stato anche insignito della medaglia d’oro alla cultura, mentre continua il suo lavoro di supporto nei quartieri più popolari di Napoli, la sua città. Le vorrei chiedere, vista la sua grande esperienza, qual è il livello dell’educazione oggi in Italia.
La realtà italiana vede forti disuguaglianze, con zone più chiare altre molto scure. Da un lato abbiamo tanti ragazzi bravi, che si fanno onore anche all’estero, sia nel campo umanistico che scientifico, che poi pubblicano nelle riviste migliori e si fanno strada; sono i cosiddetti cervelli in fuga. Sono anche il segno della bontà della nostra scuola, perché oggi i dati ci dicono che un ragazzo che si matura bene in un liceo italiano potrà certo fare altrettanto bene in una università straniera. Poi però c’è la parte scura.
Di che si tratta?
Innanzitutto c’è da dire che i ragazzi più preparati provengono al 95% da ambienti protetti, ossia da una famiglia e da un contesto sociale in cui c’è stata attenzione e investimento nella cultura. Detto in altre parole, oggi in Italia l’ascensore sociale si è fermato. E’ purtroppo così dalla fine degli anni 70, o poco dopo. Soprattutto dopo la scuola media unificata la nostra scuola emancipava dalle condizioni più povere in cui molti nascevano, e così figli di operai e di contadini potevano diventare professionisti affermati; oggi non è quasi più così. Questa dinamica si è arrestata, oggi non promuoviamo più l’uguaglianza attraverso la scuola. Questo vale in particolare in Mezzogiorno, ma anche nel resto di Italia.
E la politica, che responsabilità ha?
Non direi che da parte della politica ci sia disinteresse verso la scuola. Anzi, in questi anni ogni schieramento politico ha cercato di intervenire; nessuno, a parole, vuole una società classista. Siamo ad esempio il paese al mondo chi più sostiene i bambini con disabilità, investendo 4 miliardi all’anno; inoltre la scuola italiana integra bene circa 850.000 bambini stranieri. Vi è stato, però, nel 2008 un grave taglio alle risorse e, poi, quello che non funziona è ciò che sta attorno alla scuola, è il resto del sistema. Ci sono alcune rigidità nella scuola che indeboliscono l’azione compensativa dedicata a chi parte con meno nella vita, e poi ci sono le nuove disuguaglianze. L’Italia è divisa in due, e il sud non è in linea con gli indici europei. Pesano in negativo indici quali il reddito, la presenza di due genitori che lavorano, la condizione abitativa, l’offerta culturale del quartiere. La scuola non può da sola rispondere a un tasso così crescente di disuguaglianze.
Come vede l’inizio di questo anno scolastico? La scuola è preparata a fronteggiare una nuova ondata pandemica?
Ovviamente non spetta a me entrare nel merito delle scelte ministeriali; mi sembra chiaro che il governo stia tentando di evitare il rischio di ripartire in DAD, ma non so se ci riusciranno. Piuttosto sono dubbioso sul porre l’accento solo sulla necessità di recuperare quel che si è perso sul piano del programma scolastico, senza guardare le persone, cioè gli studenti.
Che intende?
Vede, i ragazzi italiani, come gli studenti di ogni parte del mondo, hanno fatto un’esperienza difficilissima, che nessuno aveva fatto prima di loro. Sono stati gettati in una dimensione nuova, e hanno reagito bene. Poi, certo, si sono anche depressi e hanno imparato poco, ma hanno imparato la cooperazione, di colpo hanno affrontato una catastrofe, hanno capito che materie come la biologia, l’economia e la statistica, ad esempio, sono saperi che vanno letti insieme per comprendere la realtà. Dovranno sicuramente recuperare quello che hanno perso, ma è importante dare voce a questa esperienza. Cosa hanno compreso di sé e degli altri? Come hanno aiutato in famiglia? Cosa hanno capito della complessità del mondo e della società? Sarebbe importante che la scuola si mettesse in ascolto degli studenti, quali persone che crescono. E poi c’è un altro aspetto del problema.
Quale?
La dispersione scolastica col Covid è aumentata nelle zone povere, in tutta Italia. Dobbiamo recuperare i ragazzi che abbiamo perso, che non sono entrati in DAD. Lo possiamo fare come scuola, ma anche come comunità educanti, in ogni territorio: intendo che occorre uno sforzo unito tra scuola, comuni e terzo settore. I ragazzi vanno rimotivati e ascoltati con un’azione urgente e prolungata.
Lei è iscritto alla comunità ebraica di Napoli. Riflessi è andato a Napoli più volte, ascoltando i dirigenti locali e il rav di riferimento. Lei partecipa alla vita comunitaria?
Per un certo periodo ho frequentato il tempio quasi ogni shabbat. Oggi vado a Yom kippur, e poi come posso studio per conto mio, ad esempio leggendo Rashì, e il suo commento alla parashà della settimana. Sono legato alla mia comunità, che è fluida; c’è infatti un’anima più antica, ultima eco del flusso arrivato all’inizio del Novecento da Salonicco, e poi c’è effettivamente una presenza più mobile. A me però non mi dispiace, quando vado al tempio mi piace essere tra gli altri, anche se non conosco tutti.
Quanto ha inciso l’identità ebraica e Napoli in questo suo lungo percorso di volontariato e impegno per i più deboli?
Credo che nella mia vita abbiano avuto effetto sia il ramo materno che quello paterno. Mio padre, Manlio Rossi Doria, si è sempre occupato di lotta all’esclusione e di sviluppo, in una prospettiva di attuazione della Costituzione, cui contribuì, ancora prima, attraverso la Resistenza e la lotta antifascista. Da mia madre viene il lato ebraico. Lei era un’ebrea ungherese, sopravvissuta assieme a suo fratello e ai suoi genitori alla shoah, a differenza del resto della famiglia. E così, forse nei sostrati profondi del mio animo immagino che avranno inciso entrambi questi lati. Nel mio modo laico di vivere e agire, mi piace pensare che la mia attività si possa iscrivere nella tradizione del tikkun. In fondo siamo stati chiamati a riparare il mondo. Un po’ questo è, forse, quello che provo a fare io.