Hanukkà e il “prezzo” per sradicare l’idolatria
Oltre venti secoli gli ebrei combatterono per sopravvivere: ecco quello che ancora oggi abbiamo imparato
I tempi angoscianti e complessi che viviamo hanno diversi precedenti nella storia ebraica. Uno di questi è il contesto storico (ossia uno scontro militare e culturale nel II secolo a.e.c.) nel quale è incastonata la festa di Hanukkà, sebbene per pudore etico e religioso il miracolo esaltato non sia una vittoria bellica ma ‘soltanto’ il ritrovamento di un po’ d’olio kasher per accendere le luci nel Tempio. Qual è questo contesto? Sullo sfondo, allora come oggi, vi era un braccio di ferro tra le superpotenze dell’area: i Seleucidi a nord, in Siria, e i Tolomei a sud, in Egitto (entrambi espressione di cultura ellenistica); nel mezzo il piccolo regno di Giuda, le cui élites politiche e sacerdotali da decenni si stavano assimilando a quella cultura, al suo universalismo ludico-estetico e a un forte sincretismo teologico, accettando protezione economica in cambio di subordinazione politica ma anche molti compromessi religiosi, che cozzavano con le tradizioni ebraiche radicate nella Torà. Da qui il progressivo conflitto interno – oggi diremmo “una guerra civile” – tra ebrei delle classi alte filo-seleucidi, inclini ad accettare prassi religiose allogene, ed ebrei delle classi basse, di estrazione rurale, “di piazza”, non educati nei ginnasi, conservatori delle tradizioni e dei costumi antichi.
Le fonti storiche classiche che narrano questa contrapposizione, durata decenni, sono essenzialmente tre: Flavio Giuseppe, che inizia i sette libri della sua Guerra giudaica proprio raccontando il conflitto tra la dinastia degli Antìochi e “Mattatia figlio di Asmoneo, uno dei sacerdoti del villaggio chiamato Modiin”; i Libri dei Maccabei, scritti certamente da ebrei e diffusisi in greco – vero monumento della letteratura ebraico-ellenistica – testi poi entrati nel canone cristiano, il cosiddetto Antico Testamento; la terza fonte è il Talmud (trattato Shabbat) e alcune raccolte di midrashim, il cui interesse non è storico ma religioso e liturgico.
Le narrazioni delle due prime fonti hanno punti di contatto e punti di divergenza, dato che sono state scritte a scopi e con destinatari diversi (filo-romana la Guerra giudaica; tesi a esaltare la fede in Dio fino al martirio i Libri dei Maccabei). Un punto in comune sono le grandi sofferenze patite dal popolo in questa doppia guerra, tra ebrei e greci e tra ebrei tradizionali ed ebrei ellenizzati. Un punto di divergenza è la presenza di un partito di chassidim chiamati assidei, ebrei semplici e assai devoti i quali, pur volendo liberare la terra di Israele dai profanatori e cacciare il partito degli idolatri (che avevano accettato che nel Tempio fossero poste statue di divinità greche e si offrissero loro animali impuri come i maiali), erano certissimi che Iddio benedetto in persona li avrebbe liberati e che pertanto non dovevano ribellarsi contro i dominatori stranieri, a loro dire mandati da Dio come “bastoni della Sua giustizia” per punire i peccati di Israele. Inseguiti da milizie greche, fuggirono e si nascosero di sabato in una grotta; per rispettare le regole dello shabbat decisero di non prendere le armi e furono trucidati. Il kohen Mattatia non faceva parte di questo gruppo di assidei.
Come loro voleva la liberazione, ma capì che in quel frangente non si poteva passivamente attendere la liberazione dal Cielo, che si trattava di una guerra per la Torà (come avrebbe detto Yeshayahu Leibowitz) e la sopravvivenza del verus Israel contro l’idolatria, e che per sradicarla occorreva mettere mano alle armi anche di shabbat. Un chiaro caso di piquach nefesh per salvare l’anima stessa del giudaismo e un riflesso di quello che era già, in nuce, un giudaismo farisaico-rabbinico. Rimarca il rabbino newyorkese modern-orthodox Irving Itzhaq Greenberg, «i maccabei si ispirano a un modello di alleanza nel quale gli esseri umani sono chiamati a prendere iniziativa ed azione e a ponderare l’appropriatezza di quell’azione. Non è che gli asmonei non credessero nel Dio delle mitzwot; piuttosto si fecero domande di Torà: c’è uno scopo da raggiungere? Dinanzi a un conflitto di valori quale sono le priorità? Qual è il peso del giudizio umano e quale lo spazio dell’azione per vivere meglio l’alleanza? E in ciò essi mostrarono anche di non rifiutare in toto la cultura dei greci, ma di saper discernere e accettare quanto di essa poteva arricchire la loro capacità halakhica e narrativa propriamente ebraica».
Non è difficile cogliere le analogie con la tragica storia di questi due mesi. Ancora una volta si tratta di scegliere se fare gli attendisti e sperare in improbabili interventi soprannaturali oppure se agire per sradicare le cause dell’idolatria, in questo caso di un’ideologia e di gruppi militarizzati impiegati per distruggere non solo la fede ma anche la vita del più importante centro di ebraismo esistente oggi al mondo. Israele conosce la propria storia: i maestri hanno istituito la festa di Hanukkà per ricordare che sì un nes gadol, un grande miracolo, è avvenuto nel Tempio, ma solo dopo che Mattatia, i suoi figli e il popolo che li seguirono ebbero combattuto con le armi, pagando il prezzo dello scontro diretto – e persino di una guerra civile – per non soccombere e scomparire in quanto ebrei. A tal fine scartarono sia l’opzione degli assimilazionisti (a cui stava bene l’idolatria) sia l’opzione degli assidei (i fideisti e i fondamentalisti, che aspettavano passivamente e acriticamente dall’alto la liberazione). La lezione di Hanukkà non finisce di stupire.