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È facile insegnare, ma spesso non si è ascoltati

Domani leggeremo la parashà di Vaerà. Rav Roberto Reuven Colombo riflette su cosa serve, ancora oggi, per uscire dall’Egitto

Lezione tratta da Sichòt Mussàr di Rabbì Chaim Shemuelevich. Anno 1971

Il faraone non ascolta le richieste di Moshè espresse nella Parashà di Shemòt e non libera il popolo ebraico dalla schiavitù. Allora Dio gli impone di tornare nuovamente dal re d’Egitto e di ripetere l’ordine di lasciar partire i figli di Israele. Ma questa volta le parole divine sono assai poco comprensibili:

“Il Signore parlò a Moshè e ad Aaròn e ordinò ai figli di Israele e al faraone re d’Egitto di far uscire i figli di Israele dall’Egitto” (Es. VI, 13).

appunto di Rabbì Chaim Shemuelevich

La domanda riguardo al versetto è assai logica: ha certamente un senso chiedere al faraone di lasciar partire i figli di Israele dall’Egitto, ma perché rivolgere la stessa invocazione anche ai figli di Israele stessi? Ha forse un senso ordinare a degli uomini oppressi e dominati di liberare se stessi dalla servitù e dalla prigionia? E poi, perché chiedere prima al popolo ebraico e solo successivamente al faraone di far sì che ogni persona viva il dono della libertà?

  1. Primo commento: sii tu d’esempio

Anche gli ebrei avevano i loro schiavi personali. In Egitto i prepotenti infierivano a loro volta sui più deboli e con durezza e aggressività demandavano ad altri i propri doveri imposti dai dominatori. Il faraone, visto che tra gli stessi ebrei vi era prepotenza e violenza non aveva ascoltato le parole di Moshè e anche in seguito si sarebbe nuovamente preso gioco di un popolo che, se da un lato chiedeva libertà, per primo non riusciva a capire la bellezza e il senso del rispetto altrui. Spesso noi ebrei pretendiamo riguardo e considerazione da parte dei Gentili mentre per primi non osserviamo le logiche e semplici norme di rapporto interpersonale. Può forse un docente ritardatario chiedere agli alunni di presentarsi in tempo? Possiamo chiedere stima quando siamo i primi a non portarla? Quando Leà sostituì la prima notte di nozze la sorella Rachèl e si unì per prima con Ya’akòv che non la vide perché accecato dall’oscurità, alla protesta del Patriarca lei rispose: “Non hai forse agito anche tu nello stesso modo quando ti facesti passare per tuo fratello dinnanzi a tuo padre Itzchàk che non ti poteva vedere?”. Ya’akòv per questo non si adirò con Leà e ben capì la lezione. Parlare è facile e non è poi complicato impartire una bella lezione di morale, ma è onesto che a trasmettere insegnamenti ad altri sia soprattutto chi li mette in pratica, se costui desidera che questi vengano ascoltati. Ecco dunque la logica del versetto su citato: “Moshè, insegna agli ebrei che se per primi non saranno loro stessi a portarsi rispetto reciprocamente anche gli egiziani non avranno verso Israele alcun riguardo. E ciò sarà valido per sempre e in ogni fase della nostra storia”.

Ramses II, faraone in Egitto orientativamente ai tempi dell’Esodo
  1. Secondo commento: s’impari a ricordare il passato

Quando fu distrutto il primo Santuario i Maestri e i Profeti cercarono di capire le gravità delle colpe commesse che consentirono la devastazione della terra di Israele. Il profeta Yrmià (Geremia) scrisse che il più grave peccato che portò Dio a permettere l’esilio babilonese fu quello di non aver assolto al dovere di liberare gli schiavi nell’anno Sabbatico, come viene imposto dalla stessa Torà:

La parola del Signore fu dunque rivolta a Yrmià, in questi termini: «Così parla il Signore, Dio d’Israele: “Io feci un patto con i vostri padri il giorno che li condussi fuori dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù, e dissi loro: Al termine di sette anni, ciascuno di voi rimandi libero il suo fratello ebreo, che si sarà venduto a lui; ti serva sei anni, poi rimandalo da casa tua libero; ma i vostri padri non ubbidirono e non prestarono orecchio… ciascuno di voi ha fatto ritornare il suo schiavo e la sua schiava che avevate rimandato in libertà a loro piacere, e li avete assoggettati a essere vostri schiavi e schiave” (Yrmià XXXIV).

Il Trattato Rosh ha shanà (Talmud babilonese), tradotto in italiano (Giuntina)

Anche il Talmud Yerushalmì (Rosh Hashanà 3, 5) ritiene, sulla base di ciò che scrisse Yrmià, che il Santuario sia stato distrutto e il popolo ebraico portato in esilio a causa della colpa di non aver liberato gli schiavi nel momento imposto dalla Torà. È indubbiamente strano che tra i tanti peccati commessi dal popolo ebraico il Profeta si soffermi in modo particolare sulla mancanza di non aver concesso la dovuta libertà agli schiavi a tempo debito. Ma soprattutto è incomprensibile che le fonti nel Testo che impongono l’obbligo emanato più volte dopo la consegna della Torà sul monte Sinài non siano citate da Yrmià che si sofferma invece su quanto detto a Moshè mentre gli ebrei si trovavano ancora in Egitto. L’errore, il terribile sbaglio che spesso si commette è quello di dimenticare le proprie vicissitudini e il proprio passato. L’oblio ci porta spesso a non considerare il dolore e la sofferenza altrui. Spesso una tristezza e un dolore provati un tempo e fortunatamente conclusi non ci portano poi a considerare nel giusto modo l’abbattimento di coloro che vivono ciò che un tempo anche noi abbiamo provato.

l’assedio di Gerusalemme, immaginato da Hayez

Un vero uomo è colui che parte dalle proprie esperienze di vita per comprendere anche ciò che è insito nell’animo altrui. Al tempo del Profeta Yrmià i padroni non si concentravano altro che sui propri interessi personali dimenticando a causa del proprio egoismo il disagio vissuto nell’animo da uno schiavo per la propria condizione e per la condizione dei propri famigliari. È assai consueto, ad esempio, dimenticare il dolore della povertà vissuto in passato all’interno della propria casa e non aiutare chi si trova in miseria e necessita aiuto. È assai difficile dimenticare il passato ma è ancor più complicato ricordare il tempo che fu per potersi rapportare agli altri. Ecco il grave errore che portò la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Quando gli ebrei erano schiavi in Egitto: Il Signore parlò a Moshè e ad Aaròn e ordinò ai figli di Israele che un giorno ogni ebreo dovrà ricordare l’umiliazione provata in Egitto e comportarsi di conseguenza verso ogni fratello affinché la mortificazione di ciascuno possa scomparire comprendendo il tormento o il disagio di chi è costretto dalle cause della vita a perdere la propria dignità sperata. La colpa, il grave difetto che stravolse la storia di Israele fu, dunque, soprattutto la mancanza di considerazione dell’umiliazione altrui, ma provata un tempo anche personalmente. Spesso si crede che un malinconico passato debba essere dimenticato per pensare ad un appagato futuro. Non è sempre così. Quando un ricordo infelice porta a considerare il male e la tristezza di altri e spinge a rivolgere la propria stima e aiuto a colui che lo necessita, allora è un bene che la memoria mantenga indelebile anche lo sconforto di un tempo.

Saccheggio romano di Gerusalemme

Non è sempre un bene che il tempo cancelli il duro passato. Il nostro trascorso è spesso il presente di tante altre persone con cui dobbiamo convivere e condividere anche i momenti tristi per poterli combattere assieme. Il ricordo deve vivere in noi, ma non per abbatterci o deprimerci bensì per aiutare noi stessi e gli altri a non cadere nella malinconia e nella depressione. Anche questo è il senso dell’ordine impartito a Moshè ed Aròn di ordinare ai figli di Israele… di far uscire i figli di Israele dall’Egitto: non dimenticare mai i propri problemi vissuti in passato e risolti con l’aiuto di Dio in modo di capire anche le difficoltà altrui e fornire sostegno e comprensione a chiunque lo necessiti.

 

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