Pesach, tra memoria e contemporaneità
Pesach ci aiuta comprendere come la cura della memoria abbia bisogno sempre di nuova energia
Ho sempre avuto difficoltà a parlare di passato senza riferirmi al presente, limitandomi a musealizzare gli avvenimenti in una struttura di ricordi per lo più tragici evocati e (ri)vissuti all’interno di contenitori creati o modificati allo scopo.
Per questo credo che una costruttiva cultura della memoria possa essere costituita anche di pietre di inciampo e musei, ma abbia bisogno di energia, vitale e contemporanea.
Il popolo ebraico, ridotto ai minimi termini dallo sterminio nazifascista, vive, è qui, con la sua identità, con i suoi colori, con le sue sfumature, con le sue tradizioni. Con la sua libertà. E´sempre sopravvissuto, come si ama ripetere, a chi voleva eliminarlo, con sete di libertà e voglia di muoversi, di cambiare e migliorare. Se stessi ed il mondo. Per questo trovo certamente Pesach esemplare per parlare di ebrei, di esseri umani e dei loro limiti, di libertà personale e di popolo, di schiavitù, di quello che si lascia e di quello che si trova, di memoria, di attesa, di identità, di autoriflessione, di famiglia, di rapporto con il mondo naturale, di limiti, di domande (e risposte), anche senza voler scomodare il rapporto con un D.o che le vicende dell’Exodus non permettono in ogni modo di ignorare.
Non scopriamo certamente in questa sede la straordinaria valenza pedagogico formativa della Haggadà di Pesach, simbolo di vitalità ed attualità dell’ebraismo e di un suo -e attivo- ruolo nella costruzione di un mondo migliore. Con attenzione per le diverse prospettive di analisi e presentazione. Fondamentale è, per esempio, riferirsi alla voce dei rabbini (ortodossi e non) che utilizzano la Rete per spiegare e chiarire, con spazi (anche per i non ebrei) per domande e curiosità.
Pesach è, del resto, una festa delle domande, come Rabbi Jizchak Abarbanell, figura esemplare di ebreo e di uomo di stato, costretto dai tempi a subire gli effetti dell’antiebraismo, ma sempre attivo e presente là dove si trovò ad operare, nel XV secolo scriveva nel suo Commento all’ Haggadà. A Rabbi Abarbanell non sfugge il valore aggregante, alfabetizzante, quasi “democratico” di un Haggadà che comincia in aramaico, perché il popolo semplice di Israele, le donne ed i bambini, le persone semplici che conoscevano appena l’ebraico, potessero capire l’invito.
Capire, porsi domande, porre domande, decidere, muoversi: una didattica orientata allo sviluppo di queste competenze storico-sociali deve naturalmente, in riferimento a Pesach, offrire un corretto ed esaustivo approccio alle fonti, chiarire la struttura, i simboli ed i riti della festa, spiegare termini, tradizioni e definizioni, oggetti. Pure collegandosi ad altri contesti, ebraici e non ed al mondo della cultura materiale.
Le matzot, del resto, sia pure senza timbri rabbinici, sono parte ancora oggi delle tradizioni culinarie tedesche, caratterizzate, come quelle italiane del resto, di atavici legami con l’ebraismo. E come dimenticare fonti fondamentali per la storia europea tutta, come la Darmstädter Haggadà con le sue straordinarie, enigmatiche e controverse miniature, come l’Haggadà sefardita di Seraievo, simbolo di pace e di dialogo tra culture o i misteri della Haggadà ashkenazita della “testa degli uccelli” e quelle di Barcellona e di Praga?