Ebrei in lotta per le vie di Varsavia
Szczepan Twardoch, nel suo “Il Re di Varsavia”, descrive il mondo ebraico polacco alla vigilia della Shoah, come è difficile immaginare sia esistito davvero
“Ci sono due Varsavia intorno a questo ring, l’una nemica dell’altra, e io nel mezzo”.
A parlare è il ragazzo Moises Bernstain, diciasettenne oppure Moises Inbar, 67 anni, arrivato in Israele per cambiare vita. La voce narrante dice che sono la stessa persona nel primo capitolo del libro, Alef.
Il libro è ‘’IL RE DI VARSAVIA” di Szczepan Twardoch, dal nome tanto impronunciabile quanto oggettivo è il suo talento letterario la sua capacità di scrittura, di analisi e di immaginazione.
Su quel ring combatte Jakub Shapiro con la maglia del Maccabi contro Andrzej Ziembinski, del Legia. Ad assistere a quell’incontro di boxe ci sono due Varsavia appunto “diverse, che parlano lingue diverse, vivono in mondi diversi, leggono giornali diversi e, se nel migliore dei casi si ignorano e nel peggiore si ammazzano a vicenda, si disprezzano ogni giorno di più, come separate da un oceano e non da qualche strada”.
Leggendo le quasi 500 pagine di quest’opera edita da Sellerio, non mancano colpi di scena, incertezze e dubbi. Una cosa è invece certa: siamo nel 1937 in Polonia, dove accade, è accaduto e sta per accadere tutto. La storia sta aprendo la strada con inarrestabile folle lucidità alla tragedia.
E’ Varsavia la protagonista di questo libro alla fine, come sottolinea Francesco Cataluccio nel commento finale al romanzo affidando alle parole dello studioso Chone Shmeruk la definizione più autentica del rapporto di appartenenza ed estraneità degli ebrei con la città dove si parlava yiddish più di qualsiasi altro posto al mondo e dove rappresentavano una quota significativa della popolazione come in nessun altro luogo.
“Varsavia. Ero posseduto da questa parola, come fosse un dibbuk. La canticchiavo giorno e notte, una parola potente e oscura. Semplicemente Varsche in yiddish, ma in polacco tre sillabe nere, pesanti, gravide di destino e forse di tragedia: War-sza-wa”. Un sentimento forse comune agli oltre 350 mila ebrei che negli anni Trenta del secolo scorso abitavano la città e la permeavano di un clima particolare fatto di assimilazione, identità e soprattutto contrasto.
Le pagine scorrono veloci tra avvenimenti storici e accadimenti narrativi, l’avvicinamento alle falangi fasciste, il sottofondo della politica del Bund in questo romanzo criminale-politico-sociale di un mondo che sarebbe scomparso.
Nessuno oggi parla più yiddish e tanto meno ebraico in quelle strade devastate dalla follia.
Nessuno celebra più lo shabbat in quella che è stata la vera metropoli ebraica prima dell’Olocausto e mentre la nuova culla dell’ebraismo moderno, Tel Aviv, in quegli anni Trenta stava ancora prendendo forma con i quartieri Bauhaus a tenerla collegata con quel cuore askhenazita della Galizia e della Germania. La ricostruzione dell’ambiente ebraico e della Polonia tra le due guerre è accurata fino ai più minimi dettagli dall’autore, abilissimo e raffinatissimo manipolatore di parole e stati d’animo, descritti con freddezza quasi disturbante ma nello stesso tempo con rigore e precisione. Un racconto senza abbellimenti, senza indulgenze per nessuno, per quel lutto, per quella identità perduta. Del resto l’autore, polacco della Slesia nella nuova Polonia, ha familiarità con tradizioni e simboli altrettanto abbandonati e vivi solo finché vivo riusciremo a mantenerne il ricordo.
La sua storia è quella quasi naturale di chi è nato in una terra tormentata e violentata ripetutamente, patria inevitabilmente di violenti e tragici personaggi come se fosse indissolubilmente legata ad un destino di sfide e continui conflitti. Twardoch ha poco più di quarant’anni e una prosa accattivante. Il suo pensiero è teso, lucido, mai banale, con riferimenti letterari, religiosi, storici minuziosi. A completare l’opera c’è l’utilizzo di riferimenti metafisici, come la grande balena nel cielo sopra Varsavia, Litani, forse un riferimento a Giona.
Il re di Varsavia è un criminale, un mafioso della mafia ebraica, in un mondo dove i peccatori sono molti e i santi pochi.
Quasi fino alla fine del resto è la stessa voce narrante ad apparire incerta, il protagonista a cambiare sistematicamente prospettiva alla storia, fino ad arrivare ad un finale forse prevedibile ma comunque sorprendente. La scrittura rivela la matrice da sceneggiatore dell’autore, la narrazione è moderna, ad effetto continuo e a tensione elevata e costante nel descrivere lo scivolare del mondo nel baratro della pazzia.