Ariel Arbib il racconto

Un uomo che ce l’ha fatta

Cinquantacinque anni fa, a seguito della Guerra dei sei giorni, la millenaria comunità ebraica libica, decimata da pogrom e dall’odio antisemita, era costretta a fuggire, per trovare riparo in Italia. Ariel Arbib ricorda quella tragica storia

Questa vettura puzza ancora di Ebrei che farebbero meglio a scendere, altrimenti dovremmo spruzzare del flit per disinfestare l’ambiente!”.

La stazione centrale di Tripoli
La stazione centrale di Tripoli

Questo è ciò che fu urlato con disprezzo all’indirizzo di mio padre e mia madre da un fascista, tale Millefiorini, seduto assieme ad altri suoi accoliti in camicia nera, mentre il treno era ancora fermo nella Stazione di Tripoli in attesa di partire. 

I miei genitori, Roberto e Esther Arbib, vi erano appena saliti, seduti sui duri sedili di legno in una carrozza di seconda classe, tenendo bene in vista i biglietti e sulle loro ginocchia i loro tre giovanissimi figli, all’epoca dei fatti, di tre, cinque e sette anni. Lasciavano Tripoli, diretti a Zavia, una cittadina sulla costa del Mediterraneo, distante poco più di cinquanta chilometri ad Ovest, con i loro fagotti da sfollati, nel tentativo di mettersi in salvo assieme alla famiglia del nostro nonno materno Meyr Uzzan, dai quei frequenti e micidiali bombardamenti degli Alleati. 

Era da poco scoppiata la guerra, dichiarata da Mussolini a Francia ed Inghilterra dal balcone di Piazza Venezia, alle ore 16,00 di quel fatidico 10

DIchiarazione di guerra di Mussolini
La prima pagina del Popolo d’Italia dell’11 giugno 1940, con l’annuncio della dichiarazione dell’entrata in guerra dell’Italia.

Giugno 1940. Solo poche ore dopo, aerei francesi, decollati dalla vicina Tunisia ed inglesi da Malta, avevano iniziato un massiccio bombardamento su Tripoli, puntando sulla Società Elettrica. Alcune bombe invece caddero purtroppo anche su abitazioni civili, provocando, già in quel primo giorno di guerra, centinaia di vittime tra la popolazione locale. Senza fare distinzione alcuna, le bombe colpirono in egual misura, arabi, greci, maltesi, italiani ed ebrei, tra questi ultimi anche alcuni nostri stretti familiari. Nelle settimane e nei mesi successivi, i bombardamenti aerei sulla città si intensificarono divenendo ancor più micidiali perché, a questi, si aggiunsero anche gli ancor più dirompenti cannoneggiamenti da parte delle navi alleate in rada di fronte al porto di Tripoli.

A migliaia cercavano scampo rifugiandosi nelle campagne limitrofe a chilometri di distanza, tra questi la mia famiglia, che vedeva in quel treno il mezzo per la propria salvezza. Il treno finalmente si mosse.

Percorsi però solo pochi chilometri, forse per assecondare la spocchia e le urla facinorose del fascista Millefiorini, il controllore, anch’egli in camicia nera, contrariamente ai regolamenti, si parò davanti a mio padre sequestrandogli i biglietti ed intimandogli di scendere alla prima stazione dove il treno si sarebbe poi fermato. Nonostante questi fosse stato un amico e collega parigrado di mio padre alle Ferrovie italiane e, nonostante le resistenze di mio padre, forte dei suoi vent’anni di onorato servizio finito drasticamente e senza congedo due anni prima, con la promulgazione delle nefaste leggi razziali del 1938, percorsi all’incirca quindici chilometri, il treno si fermò a Zanzur e mio padre con la sua famiglia furono fatti scendere di prepotenza, nel totale silenzio ed indifferenza degli altri passeggeri.

La città vecchia di Tripoli
La città vecchia di Tripoli

Con sua grande sorpresa, una volta scesi sulla banchina della Stazione, papà vide scendere dal treno altri correligionari di Tripoli i quali, evidentemente, stavano subendo la sua stessa sorte. Tra questi c’era l’allora Presidente della Comunità israelitica di Tripoli, il Comm. Halfalla Nahum ed il Rabbino Capo Dott. Aldo Lattes. Entrambi come mio padre, cittadini italiani. 

Su interessamento di papà, col favore del suo ex collega, Capo di quella stazione mosso a compassione, con una telefonata fece arrivare un’automobile con a bordo uno dei maggiorenti della Comunità di Zavia il quale, giunto a Zanzur repentinamente, accolse le due personalità conducendole poi alla loro definitiva destinazione.

Il resto del gruppo, una ventina di persone, si incamminò invece a piedi, verso Zanzur trascinando bagagli e coperte e tenendo in braccio i propri figli più piccoli. Era questa una cittadina a Nord-Ovest di Tripoli abitata prevalentemente da arabi, qualche famiglia italiana e da una ventina di famiglie ebree. Il gruppetto dopo circa sei chilometri percorsi a piedi, vi giunse quando era orami già buio ma, nonostante questo, la minuscola Comunità ebraica del luogo li accolse fraternamente, prodigandosi per sistemarli alla meglio. 

Ad onore del vero, va detto che anche la Comunità araba del luogo si dimostrò accogliente e non creò loro alcun  problema, ma anzi, ogni tanto mio padre accettava i loro inviti a sedersi su tappeti stesi in terra, attorno ad un bracere di terracotta, per fare una chiaccherata assaporando un bicchiere di thè nero.

Montgomery Libia
Il generale Montgomery prende il tè con l’equipaggio di un carro armato dell’Ottava Armata (Libia, 1943)

Dopo aver affittato due piccoli appartamenti uno per sé ed uno per il suocero, mio padre decise di rimanere lì per qualche mese, ricordando poi quel tempo trascorso, come un periodo estremamente felice della sua vita. La loro permanenza a Zanzur si protrasse invece per più di un anno e mezzo, più precisamente dall’Aprile del 1941 e fino al 21 Gennaio 1943. Il giorno dopo l’VIII Armata del Generale Montgomery faceva il suo ingresso a Tripoli senza colpo ferire.

A motivo di questo, il panico si impadronì presto dei militari italiani e anche di quelli della guarnigione tedesca della Wermacht di stanza a Zanzur, che proprio in quelle drammatiche ore stavano ricevendo ordini per la ritirata. Il piccolo paese sarebbe rimasto pertanto senza più presidi militari armati e senza protezione alcuna, correndo probabilmente il rischio di subire saccheggi e predazioni da parte di bande di razziatori arabi. Poiché la guerra non lascia mai molto scampo alla povera gente, in quel marasma, bisognava decidere in fretta il da farsi. Seguire le truppe italiane in ritirata verso la Tunisia, non era una strada percorribile, troppo pericolosa ed imprevedibile. L’unica soluzione era ritornare a Tripoli, ma come? 

Le linee di comunicazione erano state interrotte, treni neanche a parlarne. Seguendo invece l’idea di affidarsi ad estranei per farsi portare con un carretto fino a Tripoli, si sarebbe rischiato di cader vittime di persone senza scrupoli, di venir depredati e magari anche uccisi. Quindi che fare?

La Provvidenza bussò generosamente alla porta dei miei.

(continua a pag. 2)

12 risposte

  1. Caro Ariel
    Molto commovente .
    Complimenti per il racconto e per le chiare descrizioni.
    Hazak a te e zl a tuo padre che ti ha trasmesso questo diario.
    Shabbat Shalom
    Daniele Fargion

  2. Caro Ariel,
    grazie per questo tuo nuovo racconto. Ogni tua parola apre uno spiraglio verso un mondo scomparso, così simile e pure così differente, da quello vissuto in Europa negli stessi anni.
    Un abbraccio, Shabbat Shalom

    Claudio Della Seta

  3. Grazie Ariel, sono situazioni che non conoscevo, come sarebbe interessante ricostruire la nostra storia.

  4. Bravo Ariel!
    La storia degli ebrei di Libia merita di essere raccontata è ricordata.
    Essa è esemplare della resilienza ebraica in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

  5. Ciao Ariel, la memoria dei fatti storici, condotta dal filo d’Arianna di vicende familiari, aiuta a discernere gli avvenimenti attuali e quelli possibili. È anche un modo per ritracciare la mappa per un nuovo viaggio!
    Quel che ora conta è mantenere la pace con ogni sforzo fra le genti. Con la guerra tutto si può perdere , con la pace ognuno vince la propria battaglia. Cari saluti

  6. Racconto coinvolgente e molto ben scritto. Grazie di avercelo donato.

    Da un non ebreo ma vicino alle Comunità ebraiche, Shabbat Shalom.

  7. Ariel ho le lacrime agli occhi e un nodo alla gola mi hai fatto tornare alla memoria quei terribili giorni del giugno 1967

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