Ariel Arbib il racconto
Ebrei a Tripoli negli anni Cinquanta

Caso volle che un Ufficiale tedesco, di stanza a Zanzur, avesse comprato a Tripoli una macchina fotografica Kodak nel negozio dello zio Fellah, cognato e socio di mio padre. Il militare si presentò reclamando indietro i soldi pagati, in quanto, sosteneva, che la macchina non funzionava a dovere. Lo zio Fellah, visionò la macchina e si rese conto che questa aveva ricevuto un colpo, probabilmente a causa di una caduta. Non volendo contestare più di tanto, visto che il tizio era visibilmente irritato ed inoltre aveva anche una Mauser nella fondina, gli propose di fermarsi, rientrando al suo Comando di Zanzur, da suo cognato, il quale lo avrebbe senz’altro rimborsato. Gli affidò un biglietto di spiegazioni per mio padre e lo liquidò.

Mentre la disperazione sul che cosa fare e sul dove andare assaliva ancora mio padre, bussò una mattina alla porta di casa Arbib l’Ufficiale tedesco in questione il quale, mostrata a mio padre la macchina ed il biglietto ricevuto, ne pretendeva perentoriamente l’immediato rimborso. Dopo il primo momento di panico dovuto alla situazione improvvisa e inaspettata, si accese come una lampadina nella testa di papà un’idea geniale. Propose infatti al tedesco, non avendo con sé la cifra necessaria, di poter far salire sul suo camion militare parcheggiato lì fuori, lui con tutta la sua famiglia per farsi ricondurre a Tripoli. Lì sarebbe stato pagato. Il graduato, seppur con qualche reticenza accettò la proposta, stabilendo che il giorno stesso alle ore 16 in punto, il suo attendente sarebbe arrivato col camion per riportarli a Tripoli e ritirare così il danaro. Puntuale come solo un militare tedesco poteva essere, l’autista foriere arrivò come convenuto di fronte a casa, dove, sperando nel Buon Dio, cose e persone furono caricate nel cassone scoperto del camion

Ebrei a Tripoli nella prima metà del Novecento

Solo mia madre, con in braccio il piccolo Ever di poco più di quattro anni, presero posto all’interno dell’abitacolo a fianco al guidatore, il quale, con gesto meccanico, sfilò dalla fondina la sua pistola d’ordinanza poggiandola sul cruscotto del mezzo. Oltre a mio padre e la sua famiglia, sul camion prese posto anche un anziano e ricco ebreo del luogo, il quale  fuggiva anch’egli per paura di venire aggredito una volta rimasto da solo a Zanzur. Stringeva al petto una cassetta di legno con all’interno un vero piccolo tesoro fatto di monete d’oro e gioielli. Si sedettero infine trepidanti sulle panche poste ai lati delle due sponde dell’automezzo, mentre il militare tedesco metteva in moto il motore. Finalmente partirono infine alla volta di Tripoli

Tripoli distrutta 1943Fatti però pochi chilometri il camion si fermò nei pressi della Stazione ferroviaria di Zanzur, solo pochi istanti prima che soldati guastatori tedeschi facessero saltare in aria l’antenna di una stazione radio per non lasciarla nelle mani degli inglesi. L’esplosione avvenne a meno di trecento metri dal punto in cui si era arrestato il mezzo. Il boato provocato dalle mine creò il panico. Schegge, terriccio e detriti ferrosi caddero tutt’attorno al camion, senza per fortuna fare danni. Il conducente, avuto il via libera, riprese la marcia verso Tripoli, non senza difficoltà, in quanto la strada era intasata di mezzi e uomini per la ritirata delle truppe dell’Asse che la stavano percorrendo in senso opposto al loro, verso la Tunisia. Dopo due lunghe ore di tragitto e dopo aver percorso solo sedici chilometri, arrivati in vista delle mura della città, l’autista invece di varcarne la porta, sterzò bruscamente il camion, costeggiando le mura esterne di Tripoli. Mia madre, sollecitata da mio padre attraverso il lunotto posteriore aperto, chiese spiegazioni all’autista della brusca manovra. La difficoltà di comprendersi e quindi senza avere alcuna spiegazione, il tedesco fece capire che così gli era stato ordinato di fare e per meglio affermare questo concetto, impugnava di continuo la pistola prendendola e poi riponendola nuovamente sul cruscotto.

giugno 1967: Moshè Dayan entra nella parte est di Gerusalemme
giugno 1967: Moshè Dayan entra nella parte est di Gerusalemme

Ad ogni gesto del genere del militare, mia madre invocava ripetutamente la protezione del Padreterno e di di Elihau haNavì, preoccupata per la loro sorte e soprattutto per quella dei suoi tre figli.  Mentre l’autista continuava a guidare attorno alle mura senza che ci fosse per questo un preciso senso logico, un furioso bombardamento alleato iniziò in quel preciso momento a sconquassare la città. Preso dal panico e dal fuggi fuggi generale di militari attorno a loro, il tedesco arrestò il mezzo improvvisamente e scese a terra. Impugnata nuovamente la sua rivoltella, la puntò questa volta su mio padre, intimandogli di scendere immediatamente dal cassone e far scendere tutti gli altri. Muti per il l terrore, non poterono che assecondare il soldato, che nella foga strattonò il vecchio buttandolo giù malamente dal cassone con la sua cassetta del tesoro e così fece con i miei due piccoli fratelli, Lillo e Maurice. 

Se ne andò poi a piedi e di corsa, lasciando il camion lì dove lo aveva fermato, dirigendosi verso quelle fiamme provocate dalle bombe e che ora si scorgevano in lontananza, luogo dove probabilmente era dislocato il suo reparto.

Era calata nel frattempo la notte e con essa il buio.

qui e sotto: immagini della Guerra dei sei giorni

Il gruppetto famigliare assieme all’anziano di Zanzur, si ritrovò riunito assieme, sotto le bombe alleate che continuavano a venir giù, soli, terrorizzati ed impietriti dalla paura tra le loro masserizie sparse a terra. Non doveva essere certo facile trovare la lucidità e la freddezza per uscir fuori da una tale situazione e per riuscire a capire come potersi orientare e valutare in che punto il tedesco li avesse scaricati.

 In quel momento, come se già quelle traversie non fossero bastate, un gruppetto di arabi che passavano in quei paraggi comparve dal buio. Era formato da due giovani un anziano e una giovane ragazza. Avvicinandosi a loro con fare sospetto, si capì subito quali fossero le loro intenzioni. I due ragazzi afferrarono, strattonandolo la preziosa cassetta dell’anziano passeggero, mentre l’altro si impadroniva delle due valigie dei miei genitori. Alle suppliche di mio padre e al pianto disperato di mia madre e dei loro tre bambini, la giovane ragazza araba si impietosì e chiese a quello che doveva essere suo padre, di fermare e far desistere quei due ragazzi da quella razzia. E così avvenne!  Così come erano comparsi, i quattro scomparvero di nuovo nel buio della notte.

 Lunghi momenti di angoscia passarono ancora mentre il rumore di un carretto dalle grandi ruote, trainato da un cavallo, forse inviato dalla Divina Provvidenza, riaprì le speranze. Probabilmente, perché il Buon Dio aveva stabilito un altro epilogo alla loro storia, per far sì che la famiglia si ingrandisse ulteriormente, con la nascita di mia sorella Luisa, qualche anno dopo quei fatti ed in seguito la mia a Roma, città in cui la mia famiglia riparò nel 1948, dopo che l’Italia ripudiò definitivamente il suo passato fascista.

Il ragazzo arabo che conduceva il carretto rallentò alla loro vista ed in quel frangente mio padre, spinto dalla disperazione, si avventò sulle briglie afferrandole sotto il muso del cavallo, bloccandolo del tutto.

Il ragazzo chiese spiegazioni di quel gesto eccessivo e mio padre gli raccontò quindi la loro Odissea, aggiungendo che il Buon Allah, probabilmente, lo aveva condotto là per compiere una buona azione. Alle preghiere insistenti di mio padre di condurli a Tripoli, il ragazzo arabo confessò che stava rientrando a casa a due chilometri di distanza da lì e che l’anziana madre, non vedendolo ritornare per la solita ora si sarebbe certamente preoccupata. In oltre, al buio ed ora sulla strada di ritorno, il cavallo fiutava solo l’odore della sua stalla e non c’è verso di fargli cambiare idea. Papà infine, tirò fuori il suo portafoglio pregando il ragazzo di prendere la cifra che voleva, pur di convincerlo a portarli tutti a Tripoli. Alla vista dei suoi famigliari stremati ed infreddoliti dalla notte, il giovane arabo, si dimostrò più disponibile e non volle quindi accettare assolutamente il compenso che gli era stato offerto. Lo faceva, diceva, perché era timoroso di Allah e perché il suo Destino lo stava portando a compiere sicuramente una buona azione.

Coperti gli occhi del cavallo con un panno, riuscirono così a far compiere all’animale mezzo giro su se stesso, mettendolo finalmente con il muso nella direzione desiderata. Salirono tutti a bordo e lentamente il carretto si mosse verso la loro casa, mentre i bombardamenti alleati si stavano spostando su obbiettivi più all’interno del Paese. 

Il ragazzo arabo, passò qualche giorno dopo sul suo carretto, al laboratorio di verniciatura di papà, per salutarlo. Alle nuove insistenze di mio padre per contraccambiare il suo aiuto, il ragazzo rifiutò nuovamente, affermando che un’opera buona non si può ricompensare con del danaro. Mio padre allora si offerse di fargli riverniciare completamente il carretto dai suoi operai, cosa che a quel punto il ragazzo accettò finalmente di buon grado.

Gli Inglesi, entrati vittoriosi a Tripoli alle sei del mattino di un sabato 23 Gennaio 1943, piano piano rimisero ordine al caos che la guerra aveva nel frattempo creato. Le attività ed il commercio ripresero e riaprì anche il Circolo Maccabi, chiuso in precedenza nel Settembre del 1938 dai fascisti di Mussolini

Le vivaci e antiche Comunità ebraiche della Libia, ripresero a respirare di nuovo un’aria di libertà e di relativo benessere, mentre all’orizzonte si addensavano nubi nere foriere di ulteriori tragedie ed epocali cambiamenti, che qui oggi mi portano a ricordare, tutti coloro che, a differenza di mio padre non ce l’hanno fatta. 

Mi riferisco ai bambini, alle donne, ai vecchi ed alle centinaia di giovani uomini ebrei libici, vittime dei moraoth (pogrom) del ’45 e del ’48 fatti scempio dalla furia araba con la complicità e la collusione dei militari inglesi e dei loro comandanti, rimasti fermi a guardare mentre si compivano le carneficine. E non si possono neppure dimenticare le seicento vittime, perite di stenti e malattie, nel lager di Giado, vergogna del Governo fascista e dell’Esercito italiano in Libia al comando del macellaio Graziani, tragedia mai ancora del tutto sottoposta a giudizio degli uomini, né tantomeno della Storia. 

Archivio storico Libia
Alcuni oggetti portati dalla Libia dalla famiglia Arbib.
Questa immagine e quella di copertina sono tratte dal video “DAVID GERBI E GLI EBREI DI LIBIA CAPITOLO 25 ARIEL ARBIB” (https://www.youtube.com/watch?v=32VQ5ewqXRQ)

Ancora una tragedia, l’ultima per fortuna, si consumerà a Tripoli e a Bengasi all’inizio di un caldo giugno del 1967, dopo la schiacciante sconfitta subita da quattro eserciti arabi schierati contro il novello stato d’Israele, umiliazione che provocherà una vigliacca rivalsa da parte della popolazione araba libica, contro gli ebrei del luogo ed i loro beni. 

Decine furono le vittime di quest’ultimo pogrom anti ebraico ed incalcolabili i danni causati, ultimo atto di una Storia millenaria che porterà, come si è visto al definitivo distacco da quella terra ingrata di una parte antichissima, laboriosa e sana della sua popolazione.

Ho voluto scrivere questo nuovo racconto, avvalendomi ancora una volta del manoscritto delle Memorie di mio padre Roberto Avraham Arbib, Z’L’, per dedicarlo all’uomo ed al padre che è stato e per ricordare la sua grande tenacia e la sua forza d’animo di cui questo testo è un esempio. Doti e meriti di cui gli sono estremamente grato perché hanno consentito a me oggi, di poter scrivere questo racconto, dal quale non è difficile comprendere, quali labili e paradossali equilibri abbiano caratterizzato la vita ed i destini della popolazione ebraica in quei luoghi per tantissimi anni.   

12 risposte

  1. Caro Ariel
    Molto commovente .
    Complimenti per il racconto e per le chiare descrizioni.
    Hazak a te e zl a tuo padre che ti ha trasmesso questo diario.
    Shabbat Shalom
    Daniele Fargion

  2. Caro Ariel,
    grazie per questo tuo nuovo racconto. Ogni tua parola apre uno spiraglio verso un mondo scomparso, così simile e pure così differente, da quello vissuto in Europa negli stessi anni.
    Un abbraccio, Shabbat Shalom

    Claudio Della Seta

  3. Grazie Ariel, sono situazioni che non conoscevo, come sarebbe interessante ricostruire la nostra storia.

  4. Bravo Ariel!
    La storia degli ebrei di Libia merita di essere raccontata è ricordata.
    Essa è esemplare della resilienza ebraica in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

  5. Ciao Ariel, la memoria dei fatti storici, condotta dal filo d’Arianna di vicende familiari, aiuta a discernere gli avvenimenti attuali e quelli possibili. È anche un modo per ritracciare la mappa per un nuovo viaggio!
    Quel che ora conta è mantenere la pace con ogni sforzo fra le genti. Con la guerra tutto si può perdere , con la pace ognuno vince la propria battaglia. Cari saluti

  6. Racconto coinvolgente e molto ben scritto. Grazie di avercelo donato.

    Da un non ebreo ma vicino alle Comunità ebraiche, Shabbat Shalom.

  7. Ariel ho le lacrime agli occhi e un nodo alla gola mi hai fatto tornare alla memoria quei terribili giorni del giugno 1967

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Condividi:

L'ultimo numero di Riflessi

In primo piano

Iscriviti alla newsletter