Le piazze del 25 aprile 2024
Claudio Vercelli interviene su quanto accaduto quest’anno nelle principali piazze italiane in occasione della Festa della Liberazione
Da «fischia il vento» a «Controvento»: una sorta di epitome del tempo che viviamo. Se il primo verso è parte della celeberrima canzone partigiana, il cui testo fu scritto da Felice Cascione, divenuta quindi una sorta di inno delle formazioni combattenti dall’8 settembre del 1943 in poi, il secondo è invece il titolo che il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha dato al suo libro, quello che parla dell’«Italia che non si arrende». In sostanza, una sorta di autobiografia apologetica in forma di manifesto politico.
Non a caso presentandolo il 25 di aprile, all’Istituto nazionale dei ciechi, con un tempismo che non ammette ingenuità. Vittorio Feltri, interrogato nel mentre, a tale riguardo, ha dichiarato che «del 25 aprile non me ne frega un ca**o». In franchezza, rispetto a tutto ciò, non c’è nulla di cui sorprendersi. La presenza da trent’anni almeno di una destra populista completamente estranea, se non contraria, ai principi pluralisti preservati, nonché coltivati, dalla Costituzione repubblicana e democratica, non è più una novità. Ben sapendo – quest’ultima – che i frutti si raccolgono nelle urne e non nelle piazze. Lo aveva compreso Berlusconi; lo sanno i suoi esegeti, apologeti nonché continuatori. E non solo loro. Quasi a volere involontariamente parafrasare un Pietro Nenni che, dinanzi alla cocente sconfitta della sinistra social-comunista nelle elezioni del 18 aprile 1948, commentò con un lapidario «piazze piene, urne vuote».
C’è poi il resto che, a conti fatti, rileva forse assai di più. In quanto disintegra l’unitarietà residua del 25 aprile, coniugando la rottamazione di vecchi eversori e sovversivi di casa nostra, ingrigiti e senilizzati dall’impenitente trascorrere degli anni, ad una nuova plebe, multiculturale ma non per questo aperta all’inclusione (quand’anche si tratti della propria), che semmai raccoglie nel suo seno gli scarti (assai cospicui) di conclamate e rivendiate periferie. Beninteso, nessun discorso del tipo di quello improvvidamente espresso da Nicolas Sarkozy già vent’anni fa o giù di lì («Vous en avez assez de cette bande de racailles? On va vous en débarasser»). Semmai, la consapevolezza di come certi argomenti o temi simbolici, tra di essi l’immagine d’Israele – che non corrisponde alla sua concreta esistenza – si prestino ad una scenografia, che diventa sceneggiata, tale poiché basata sul bisogno di un capro espiatorio. L’esatto contrario della ricerca di reali responsabilità (che, tanto per capirci da subito, riposano anche nelle politiche dei governi israeliani).
Si tratta quindi di ragionare – a mente aperta – sul piatto forte, per così dire, nel merito del significato del discorso che andiamo facendo. Così ha scritto Carlo Panella riguardo all’«ipocrisia sull’esclusione della comunità ebraica dalle manifestazioni del 25 aprile a Roma. Blindata la Brigata ebraica a Milano. Complimenti per il ribaltamento della storia. È sconfortante questo 25 aprile che vede sfilare a Roma e Milano le bandiere dei fan di Hamas, epigoni dei palestinesi che durante la Seconda guerra mondiale si schierarono attivamente al fianco dei nazisti, ma che non vede sfilare i gonfaloni delle comunità ebraiche delle due città, esclusi dal settarismo di una ANPI che copre e avalla senza pudore l’antisemitismo dei cortei filo-palestinesi».
Si può essere d’accordo o meno rispetto ai rimandi alle responsabilità delle singole organizzazioni. Tuttavia, il nucleo del problema di ciò che è richiamato come «ribaltamento della storia», come soprattutto del suo significato condiviso, permane in tutto e per tutto. Poiché esso annulla il concreto passato a favore di una sua trasfigurazione immaginifica, basata sul sovvertimento dei riscontri fattuali. I quali, piuttosto, ci dicono che le popolazioni arabe della Palestina mandataria non fossero, in sé, del tutto filo-naziste. E tuttavia ci allertano su due altre cose, non meno importanti. La prima delle quali è la consapevolezza che le comunità ebraiche, a partire da quella palestinese, siano state rigorosamente antinaziste. Per più ragioni. Non solo quelle esistenziali, ovvero di sopravvivenza materiale e fisica ma anche, e soprattutto, per consapevole scelta di campo. La seconda aggiunge, a quanto già detto, la denuncia della compromissione di alcune élite nazionaliste arabe con il nazifascismo.
Ancora Panella: «tutta la leadership della Palestina, che poi dirigerà la guerra del 1948 contro Israele, a partire da Amin al Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme, e dal comandante militare palestinese Fawzi al Qawuqji, si infanga in una stretta alleanza con Hitler e con il nazismo. Trecento sono i dirigenti palestinesi che nel 1941 si installano a Berlino, il Gran Muftì ha più incontri con Benito Mussolini e con Adolf Hitler in cui proclama “la concordia delle idee per risolvere la questione ebraica” e rilancia continue dichiarazioni dalla radio nazista in arabo controllata dai palestinesi. Il Gran Muftì organizza anche a Sarajevo una brigata [divisione, n.d.r.] di SS musulmane. Nel 1947, reduce da un campo di detenzione francese per “reati contro l’umanità”, il Gran Muftì viene nominato a capo del Consiglio palestinese che conduce la guerra, disastrosamente persa, contro gli Israeliani. Sconfitto, il Gran Muftì continua ad essere leader dei palestinesi sino al 1958; il 20 luglio del 1951 i suoi sicari uccidono Abdallah I, il re di Giordania che trattava un accordo di pace con Golda Meir. Totale sintonia con il nazismo, inoltre, da parte di Hassan al Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, di cui Hamas, nel suo statuto, rivendica di essere “la componente palestinese”.
Le radici filonaziste di Hamas e dei Fratelli musulmani di cui è parte sono tanto certe e scabrose, quanto volutamente ignorate a sinistra. Hassan al Banna, entusiasta ammiratore dei “Protocolli dei Savi di Sion”, fa tradurre in arabo il “Mein Kampf”, è un lettore fedele del foglio nazista antisemita “Der Stürmer”, di cui ristampa le vignette antisemite, organizza pogrom contro la comunità ebraica del Cairo e non risparmia elogi: “Hitler e Mussolini hanno condotto i loro paesi verso l’unità, la disciplina, il progresso e il potere. Quando Hitler e Mussolini parlano, l’umanità, sì l’universo, obbediscono con un profondo rispetto”. Stretti i rapporti della Fratellanza Musulmana egiziana con gli emissari nazisti durante la lunga battaglia di El Alamein [1942, n.d.r.], cui segue la partecipazione dei Fratelli Musulmani al tentativo fallito di colpo di Stato filonazista al Cairo del 1942 del generale Negib a cui partecipano anche Gamal Abdel Nasser e Anwar al Sadat, dal 1936 ferventi filonazisti. Golpe che punta a schierare l’Egitto a fianco dell’Afrika Korps nazifascista, alle spalle dell’esercito inglese, per rovesciare le sorti della stessa battaglia di El Alamein. Il tutto, ovviamente, all’insegna del più urlato e rivendicato odio per gli ebrei».
Dimenticare tutto ciò implica il resettare il passato. Come infatti sta avvenendo, nel nome di un qualche improbabile richiamo alla «rigenerazione» collettiva, basata su una memoria selettiva, in sé solo la dolce menzogna che rende tanto melenso il ricordo quando ne obnubila gli effettivi contenuti. La piazza di Milano (come in buona parte quella di Roma), durante la manifestazione per la festa della Liberazione – peraltro attraversata da un ricchissimo e vivace corteo di popolo, composto da un’infinità di persone così come da molteplici presenze politiche, quasi tutte animate da una grande voglia di sincera partecipazione – non a caso ha registrato da subito tensioni e divisioni. Si trattava, almeno per alcuni aspetti, di un copione già scritto. Che ha senz’altro chiamato in causa spezzoni della cosiddetta «sinistra antagonista», da intendersi come un mutevole micro-universo di persone e personaggi, prima ancora che di formazioni e organizzazioni, unificato da un’irrisolta rabbiosità. Ad essa si è poi accodata una miscela, potenzialmente criminale, di marginali. Lo si è visto tanto più a Milano. La quale, per esprimere il suo potenziale falsamente ribellistico, cerca sempre e comunque un target, che è soprattutto un capro espiatorio. Da che il tempo si è trasformato in storia, assai spesso è successo che bande di esclusi, di reietti, di diseredati, di negletti, dal momento in cui cercavano di nobilitare sé stessi, e il loro bisogno di appropriarsi di qualcosa di altrui, simulassero una qualche identità politica.
Israele, ovvero perlopiù la sua immagine deformata (quella che ne risolve l’interna complessità nell’essere invece squalificata come esperienza storica «colonialista», «suprematista», «imperialista», pressoché dagli anni Ottanta in poi, a partire dalla guerra nel Libano) svolge – non a caso – il ruolo di capro espiatorio. Proprio perché è parte in causa, quindi per nulla esente da una qualche responsabilità. È infatti come una sorta di sostanza agglutinante, un collante che riesce a mettere insieme soggetti altrimenti diversi, tuttavia nello specifico caso accomunati dalla disperata ricerca di un copione da recitare. È già successo in alcuni atenei italiani, sulla scorta dell’eco delle crescenti interdizioni che si registrano negli Stati Uniti e non solo. Si ripete nelle piazze. La qual cosa, è tanto più avvilente dal momento in cui tali luoghi dovrebbero semmai parlare ed esortare riflessione sul nesso tra «liberazione» collettiva così come all’«emancipazione» personale. Nel ricordo del passato così come, anche e soprattutto, nell’azione del presente. Dopo di che, un gruppo di esaltati facinorosi è riuscito, a conti fatti, nel prevedibile esercizio di “sequestrare” mediaticamente piazze altrimenti gigantesche.
Posto questo riscontro, non ce la caviamo comunque tanto facilmente, dividendo i “buoni” (i tanti, i più) dai “cattivi” (i pochi, i fascisti del nostro tempo). L’isteria anti-israeliana, infatti, non ha nulla a che fare con gli eventi bellici in corso a Gaza. Ovvero, non costituisce un severo giudizio, di per sé altrimenti del tutto legittimo, sull’operato dell’attuale governo, quello di Gerusalemme, che sempre più spesso rivela la sua crescente estraneità rispetto ai valori, ai principi, alle nozioni stesse di umanità, legalità, consenso, pluralismo e legittimità. Nel nome di un’«emergenza» che si fa strumento perpetuo per puntellare interessi e poteri non di una collettività nazionale bensì di un consorzio di gruppi corporati, che si spacciano come manifestazioni collettive quando, invece, sono solo l’espressione di un raggruppamento ristretto.
Si tratta di una lesione a quei valori i quali – invece –, soprattutto in Italia, la ricorrenza del 25 aprile va cercando non solo di celebrare bensì di attualizzare. Posto che tutto ciò ha in sé un significato universale, legato all’inclusione, alla corresponsabilità, alla condivisione. Quindi, alla democrazia non formale bensì sostanziale. Facili parole, quelle che stiamo richiamando? Tanto per capirci, non è – per parte nostra – un esercizio rivolto ad “anime belle”, poiché con le spalle coperte, quindi a prescindere dalle intemperanze e dai marosi del tempo corrente. Semmai, si tratta di un atto di coscienza. Tale poiché comprende che senza qualsivoglia coesione sociale, tutto è destinato a frantumarsi. Le minoranze nazionali lo sanno bene (o lo dovrebbero comunque sapere a prescindere), in quanto ciò costituisce la linea sulla quale si assesta la loro stessa esistenza, intesa non solo come mera tolleranza altrui bensì in quanto riconoscimento collettivo. Ovvero, quella condizione senza la quale c’è invece la propria nullificazione. La maggioranza, invece, rischia di ripiegare sull’illusorio convincimento che possa bastarsi a sé stessa, senza preoccuparsi del declivio al quale minoranze assordanti, rumorose ma soprattutto eversive, sottopongono gli istituti democratici. In una sorta di gioco di sponda con quei poteri oligarchici che, dal declino delle democrazie, hanno tutto da guadagnare. Poiché gli utili idioti delle cause improbabili sono i vassalli e i serventi, da sempre, dei prìncipi di turno.
Ciò che ad oggi registriamo – allora – è soprattutto il risultato di quello che è stato un 25 aprile dimezzato. Fatto di desideri, speranze, sorrisi come anche di ragionate delusioni, al pari di omissioni e, soprattutto, compromissioni. Molti diranno che, in fondo, a fronte del titanico confronto tra autocrazie e democrazie in affanno, gli insulti, le aggressioni, i vituperi contro le minoranze contano assai poco. Non è invece così. Anche in Israele, per capirci. Che per nulla è estraneo a questa ferina dialettica. Cosa c’entra Gerusalemme con le nostre parole? Molto, per capirci. Ma il discorso, si intende, è assai complesso benché non per questo incomprensibile.