“La famiglia di piazza Stamira di Marco Cavallarin non è soltanto la storia di una famiglia ebraica anconetana del 900, ma una vera e propria saga che ricostruisce un pezzo importante di storia d’Italia”.
Così il giornalista Fabio Isman, ha introdotto il libro “La famiglia di piazza Stamira”, edito da Affinità Elettive, presentato giovedì scorso al Pitigliani, presente l’autore e la storica Anna Foa nel dibattito moderato dal presidente dell’Aned Aldo Pavia.
I quattro fratelli Sacerdoti, Sara, Enzo, Vittorio Emanuele e Cesarina, con le loro famiglie, legate da relazioni parentali agli Almagià, ai Milano, ai Castelbolognesi, sono infatti protagonisti di complesse vicende personali e familiari, che s’intrecciano con i fatti eroici e tragici della storia italiana del ‘900.
Lettere, documenti e memorie personali, raccolte con pazienza da Cavallarin e sua moglie Patrizia, figlia di Cesarina, attingendo a numerosi archivi di famiglia e a testimonianze dirette, dipingono un affresco che spazia dalla tranquillità della vita borghese nella provincia italiana di inizio secolo, al fascismo, alle prime discriminazioni, alla guerra, alla persecuzione, alle fughe in lungo e in largo per l’Italia, alla ricerca di rifugi e ai salvataggi rocamboleschi. Ci raccontano, per esperienze vissute, il sionismo, l’Alya Beth, la Resistenza, la liberazione e la ricostruzione nel dopoguerra.
E così dalle vicende di Sara, che fece l’Alyà col marito Nello Castelbolognesi, apprendiamo i gravi disagi nella vita quotidiana di kibbuzim oggi fiorenti come Givat Brenner e Netzer Sereni. Sara è rimasta legata all’Italia al punto di cantare “Bella Ciao”, nella sua casa di Askelon, per il suo centesimo compleanno. Dal racconto di Enzo, che fu partigiano tanto coraggioso quanto schivo nel raccontare, tocchiamo con mano il contributo degli ebrei italiani alla Resistenza (oltre duemila partigiani combattenti su circa quarantamila ebrei, ha evidenziato Cavallarin nel suo intervento).
Cesarina, affettuosamente descritta come fragile e al tempo stesso ironica, appena sposata con Nello Ottolenghi da rav Elio Toaff, allora giovane rabbino di Ancona, trova sul selciato davanti al Tempio la scritta “morte agli ebrei”, poi, dopo l’8 settembre, scampa di un soffio ai massacri di Meina sul Lago maggiore e, rinunciando a passare in Svizzera, decide di cercare rifugio a Roma allora “città aperta”, incontrando prima i bombardamenti sul treno dove viaggiava e poi incrociando, in direzione opposta, il convoglio dei deportati romani della razzia del 16 ottobre.
Ma è il vulcanico Vittorio, “zio Vittorio” come era chiamato da molti ebrei romani di cui era il medico, ad animare coi suoi racconti pieni di personaggi e di umorismo, molte delle vicende narrate da Ballarin. Dopo l’espulsione dall’Ordine dei medici di Ancona, si nascose al Fatebenefratelli di Roma, ufficialmente come barelliere, ma in realtà lavorando come medico e firmando centinaia di cartelle cliniche. Fu protagonista, con Ossicini e Borromeo, della nota messa in scena del contagiosissimo “morbo di K” che tenne al riparo dalle incursioni tedesche i numerosi ebrei e partigiani rifugiati nell’Ospedale.
Notevole nel libro, come segnalato da Isman , Pavia e Foa, la rappresentazione della vita ebraica in Italia prima della Shoà, il ritratto di chi erano e come vivevano gli ebrei italiani, perfettamente integrati col resto della società, per la maggior parte dei quali l’ebraismo veniva vissuto soprattutto come momento familiare e privato. Sei famiglie ebraiche vivevano nello stesso fabbricato di Piazza Stamira, in Ancona dove però si diceva che gli ebrei “dovessero avere il colore dei muri”, ovvero tenere un basso profilo.
Anna Foa ha ricordato come in quel periodo il fascismo fosse pervasivo nelle famiglie italiane e anche fra gli ebrei, come testimoniato dall’uso della camicia nera. Non poterla mettere (ad esempio all’esame di laurea) era già segno di discriminazione. Ciò che davvero fu traumatico per tutta la generazione di chi era ragazzo nel 1938 fu però l’espulsione dalle scuole, o l’impossibilità di proseguire gli studi universitari, come fu per Cesarina. Questo trauma è rimasto scolpito nella memoria di tutti i testimoni – ha sostenuto la storica – quasi più delle persecuzioni che vennero dopo.
Si è poi unita ad Isman nell’elogiare il libro, non solo perché avvincente e ben scritto ma per la libertà che l’autore si è presa nell’assecondare i salti di tempo e luogo, seguendo il filo delle memorie, rendendo in tal modo più efficace e vivida la testimonianza.
“Non ho voluto dare un ordine strettamente cronologico – ha commentato l’autore – Ho cercato di seguire il flusso del pensiero rispettando il disordine delle testimonianze per mantenerne la freschezza e l’immediatezza. La dimensione della famiglia – oltre che mia moglie – è ciò che mi ha fatto innamorare dei Sacerdoti, ed ero troppo coinvolto emotivamente per scrivere un saggio. Il pensiero che mi rallegra è che la generazione che si voleva cancellare con la Shoà ha generato un gran numero di nipoti. Grazie a loro la cultura ebraica è viva e può offrire ancora molto all’umanità”
(In alto, piazza Stamira come era decenni fa)
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