Israele è alla vigilia di grandi cambiamenti
Roberto Della Rocca, una vita impegnata nella sinistra israeliana, ci aiuta a comprendere i possibili scenari che si apriranno nel paese quando la guerra a Gaza terminerà, e come il paese guardi con sempre maggiore preoccupazione all’Europa
Roberto, tu sei stato a lungo dirigente del Meretz, storico partito della sinistra israeliana. Con te vorrei fare dunque il punto sulla situazione che il paese vive a quasi 5 mesi dall’inizio della guerra scatenata da Hamas il 7 ottobre. Innanzitutto, che situazione è quella che si trova sul campo di battaglia?
Anche l’ultima divisione di riservisti impiegata ha lasciato la Striscia di Gaza. In questo momento all’interno della striscia ci sono solo militari di leva, toccando il numero più basso di soldati israeliani impiegati negli ultimi quattro mesi. Il loro compito è quello di tenere le zone occupate al Nord e al centro della striscia, ripulire le ultime sacche di resistenza e prepararsi per le eventuali azioni militari a Rafah.
Di questa operazione si discute molto a livello internazionale. La contrarietà e le riserve espresse anche dagli alleati più stretti di Israele sono infatti molto ripetute. Qual è l’impressione che si ha osservando le cose da Israele?
Al momento credo che l’operazione sia sospesa. Il primo problema da risolvere è quello di allontanare la maggior parte dei profughi che in questi mesi si sono concentrati proprio in quella città. Parliamo di oltre un milione di persone, a cui si aggiungono gli abitanti stessi, per un totale di circa un milione e mezzo di palestinesi. È evidente che in tali condizioni non è possibile intervenire militarmente. Israele, infatti, nonostante quello che dicono i suoi odiatori, ha sempre condotto un’azione militare volta a ridurre il più possibile il numero dei civili coinvolti. È invece possibile immaginare delle incursioni mirate per colpire i miliziani individuati.
Le cifre comunque diffuse sono molto alte, sfiorando ormai le 30.000 vittime.
Dobbiamo sempre evidenziare che si tratta di cifre diffuse dal ministero della salute di Hamas. Inoltre, occorre anche ricordare che Hamas continua a farsi scudo dei civili. È ormai più che certo che basi dell’organizzazione terroristica sono state installate nelle moschee, nelle scuole e negli ospedali. In molti casi Hamas ha utilizzato queste strutture per attaccare Israele mentre i civili erano ancora all’interno, con la conseguenza di provocare ulteriori vittime. Infine va sempre ricordato che nel conteggio generale sono ricompresi anche gli uomini di Hamas. Secondo fonti americane e israeliane, più della metà della forza di Hamas è stata neutralizzata. Parliamo di circa 10.000 terroristi, uccisi e circa 7.000 feriti non abili al combattimento. Al momento, si stima che siano rimaste solo qualche centinaia di terroristi sparpagliati al centro e al Nord, mentre un’intera divisione di Hamas, qualche migliaio di combattenti, è concentrata a Rafah.
Un bollettino di guerra deve dar conto anche delle vittime dell’esercito israeliano: quali sono i numeri?
Dal 7 ottobre si stima che i militari israeliani rimasti uccisi siano circa 400, tra quelli morti il 7 ottobre e quelli colpiti nelle settimane successive a Gaza. Vanno poi considerati i circa 1.000 morti civili e gli 8.000 feriti, tra cui molte migliaia di soldati. Israele si prepara, quando questo conflitto sarà finito, a vivere con un numero molto alto di invalidi di guerra.
Un’altra questione su cui tutti si interrogano è dove sia Sinwar, il capo di Hamas a Gaza che ha ideato e realizzato l’attacco del 7 ottobre.
In questi giorni si susseguono voci disparate, tra cui quella che sia fuggito in Egitto. Io ritengo questa notizia non attendibile, perché se fosse veramente arrivato in Egitto le autorità del Cairo non lo avrebbero lasciato libero. Per questo credo che sia ancora sotto terra, nascosto a Rafah insieme a Muhamad Def, lo stratega militare di Hamas.
Quale notizie si hanno sugli ostaggi?
Quelli vivi sicuramente si trovano a Rafah, mentre dei morti si hanno meno certezze. Attualmente, su 132 ostaggi, si stima che quelli morti siano 37, in parte già uccisi il 7 ottobre, trasportati a Gaza per farne merce di scambio. Altre fonti aggiungono a questa cifra altri 10 o 20 ostaggi morti, cosicché, di quei 132, poco più della metà forse è ancora in vita. Sappiamo inoltre che sono stati spostati più volte, perché in parecchi tunnel sono state trovate tracce della loro prigionia.
A proposito di tunnel, all’inizio della guerra si è molto discusso sulla possibilità effettiva di Israele di neutralizzarli.
Secondo le stime americane i tunnel sotto Gaza raggiungono la lunghezza di circa 740 km. Israele sta procedendo progressivamente alla loro conquista e neutralizzazione. Attualmente circa un terzo di quelli occupati sono stati distrutti. Io ritengo però che sarà molto difficile eliminare per intero la rete dei tunnel; allo stesso modo penso sia difficile riuscire a neutralizzare tutti i terroristi. Del vertice di Hamas presente a Gaza, al momento è stato ucciso solo il comandante militare del nord della striscia. Dobbiamo poi ricordare che il vertice politico si trova in Qatar. E’ possibile che, come avvenuto in anni passati, anche dopo che le ostilità saranno terminate, il destino di queste persone sia segnato, e Israele farà di tutto per eliminarle.
Vista dall’occidente, la guerra a Gaza pone soprattutto un problema umanitario, con oltre un milione di palestinesi sfollati e sotto la costante minaccia di essere vittima degli attacchi israeliani. La questione è avvertita in Israele?
Il problema è molto sentito, soprattutto perché l’azione militare mette a rischio la liberazione degli ostaggi. In questo momento ogni giorno passano dai valichi israeliani oltre 200 camion, che si aggiungono agli altri 200 che entrano dal valico di Rafah, al confine con l’Egitto, dopo essere stati controllati da personale israeliano. I parenti di chi si trova ancora a Gaza tentano regolarmente di bloccare questi aiuti, al punto che l’esercito ha dichiarato zone militari interdette quelle circostanti i valichi. Nonostante le proteste, l’invio dei camion continua, anche per adempiere alle indicazioni della Corte internazionale di giustizia ed evitare che Israele venga accusata di compiere crimini contro l’umanità. Va però precisato che circa il 60% del materiale viene regolarmente sequestrato da Hamas una volta che entra nella Striscia, e in parte rivenduto al mercato nero. In altre parole, Hamas continua a fare soldi anche durante la guerra.
Come è possibile evitare che, in una situazione così drammatica, Hamas possa accaparrarsi tali risorse, così fondamentali per la popolazione civile?
È un problema che Israele si sta ponendo. Al momento una possibile soluzione è individuare del personale civile palestinese, non collegato ad Hamas, presente nei vari campi profughi, e assegnargli la responsabilità della distribuzione dei viveri e dei beni di prima necessità. Naturalmente una tale soluzione richiede la necessità di salvaguardare tali persone dalla rappresaglia di Hamas.
La guerra ha ripercussioni anche sul piano politico. Qual è la situazione in Israele?
Comincerei col dire che attualmente la guerra è condotta da un gabinetto di guerra ristretto, formato da quattro persone: Netanyahu, Gallant, ministro della difesa, Gantz e il suo vice Eisenkot, che fanno parte dell’opposizione e sono stati in passato capi di Stato maggiore dell’esercito. È questo l’organismo che, in sostanza, adotta tutte le decisioni. C’è poi un altro organo, allargato ad altre figure, che preme per effettuare azioni più radicali, in cui è presente la destra più estrema al governo. In questo secondo organo Ben Gvir è sempre presente, atteggiandosi quasi a capo di un governo ombra, pressando Netanyahu e mettendolo in difficoltà. Ad esempio, è sua la decisione di impedire, per il prossimo Ramadan, agli arabi israeliani di salire sulla spianata delle moschee, una scelta completamente sbagliata, che creerà tensioni e problemi.
Il destino politico di Netanyahu è segnato o ha la possibilità di risollevarsi?
Io credo che la sua storia politica sia in realtà terminata da molto tempo. Questo è il pensiero anche di molti rappresentanti del Likud, che lo dichiarano ai giornali in cambio dell’anonimato. È quasi certo che alla fine della guerra questo governo cadrà e ci saranno nuove elezioni. E questo spiega perché il Netanyahu non abbia posto limiti temporali al conflitto.
Un tema è proprio questo: il governo israeliano ha dichiarato a quali condizioni considererà questa guerra vinta?
In realtà nessuno lo sa. All’inizio si è detto che l’obiettivo era neutralizzare Hamas e liberare gli ostaggi, ma io sono molto scettico che si possano raggiungere entrambi gli obiettivi. Forse è possibile arrivare alla liberazione degli ostaggi ancora vivi, ma questo al prezzo di rinunciare a perseguire Hamas e viceversa: se si intende smantellare completamente la rete di Hamas a Gaza, questo significa rinunciare alla speranza di riavere indietro gli ostaggi. Smotrich, il ministro delle finanze alleato di Ben Gvir, per esempio, ha già dichiarato che la liberazione degli ostaggi non è una priorità, scatenando l’ira e le proteste dei familiari e non solo. Io credo invece che alla fine Israele accetterà di riavere in cambio gli ostaggi in cambio dei detenuti palestinesi, cioè di persone condannate a seguito di un regolare processo per aver commesso atti di violenza e spesso aver ucciso cittadini israeliani. Da quel che si comprende dalle trattative in corso al Cairo e poi a Parigi, si è ipotizzata una tregua per fasi, che vedrà all’inizio la liberazione delle donne non militari e degli anziani, poi delle donne soldato, infine dei soldati. In cambio di questa liberazione si dovrà concordare una tregua di lungo periodo. Anche gli Stati Uniti stanno chiaramente cambiando il tono delle loro dichiarazioni, con Biden che sta premendo sempre di più verso Netanyahu, avendo in vista delle elezioni americane a novembre.
È possibile immaginare cosa accadrà nel futuro di Gaza, una volta raggiunto il cessate il fuoco?
Il problema è proprio questo. Attualmente Netanyahu non è in grado di indicare una soluzione per il dopoguerra. Questo produce un indebolimento anche dell’azione militare, dal momento che se l’esercito non conosce gli obiettivi che si intendono realizzare sul piano politico, vede ridotta anche la propria capacità di azione e di intervento.
In ogni caso, prima o poi si ritornerà al voto. Che prospettive ci sono per il dopo Netanyahu?
Attualmente i sondaggi danno al partito di Gantz piu’ del doppio dei seggi assegnati al Likud. Più in generale, uno dei risultati più significativi raggiunti dai fondamentalisti islamici in tutti questi anni in cui Israele non ha mai cessato di essere attaccato dal terrorismo è che ormai una parte importante dell’opinione pubblica si è spostata a destra. La mia opinione è che nel prossimo futuro non sia immaginabile un governo di centrosinistra in Israele, semmai un governo con una destra diversa da quella attuale. Io credo che tutti coloro che si oppongono a Netanyahu e alla destra radicale che lo sostiene debbano lavorare per un governo di centro, basato sull’alleanza fra Gantz e Lapid, estesa a un Likud diverso da quello costruito in questi anni da Netanyahu, attualmente un partito formato da una classe politica completamente scadente.
E per quello che riguarda la sinistra, i laburisti e il Meretz?
Ci troviamo di fronte alla fine della storia di questi due partiti, che hanno contribuito alla nascita dello Stato di Israele e che a lungo ne sono stati alla guida. Come sai provengo dal Meretz, ma di fatto non partecipo più da tempo all’attività di partito, perché le scelte fatte nelle ultime elezioni sono state disastrose. Meretz non è riuscito per la prima volta nella sua storia ad entrare in Parlamento e tuttora soffre di una crisi di democrazia al proprio interno. In generale tutta la sinistra sionista attualmente è molto ridimensionata. In passato ho provato a sostenere un’azione per la creazione di un unico partito che raccogliesse tutte le forze progressiste israeliane, senza esito, per via delle resistenze dei partiti. A questo punto, io credo che l’unica possibilità per la sinistra sia unirsi in un nuovo partito, che in tal caso potrebbe aspirare, nella migliore delle ipotesi, a ottenere una decina di seggi.
Vista dall’Europa, il 7 ottobre ormai è uno sfondo lontano, mentre è sempre più forte la richiesta di un cessate il fuoco. In larghe parti della società, nelle università, e in molti ambienti della sinistra, si condanna Israele per il modo in cui conduce la guerra. Una parte ancora più radicale contesta Israele fin dalla sua fondazione. Queste opinioni lasciano indifferente la società israeliana?
Gli osservatori politici israeliani osservano con molta attenzione quel che avviene nel resto del mondo. In generale la società israeliana si mostra molto preoccupata per l’aumento di antisemitismo, non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti. Per quel che riguarda la sinistra, sussiste un generale sentimento di delusione. Anche io, nel mio piccolo, faccio il possibile per far conoscere ai politici italiani che vengono in visita in Israele, soprattutto di sinistra, qual è il trauma che abbiamo subito il 7 ottobre, e come non sia possibile pensare di continuare ad avere Hamas come vicino di casa. Inoltre evidenzio sempre come Gaza non sia più occupata da ben 18 anni, e che Hamas in questi anni ha investito tutti i suoi soldi in armamenti e in tunnel per attaccare Israele, nonché ha educato le giovani generazioni a odiare gli ebrei nel mondo. Questo è stato l’errore principale di Netanyahu: aver alimentato Hamas sperando che in tal modo le divisioni all’interno del mondo palestinese avrebbero impedito per sempre la nascita di uno stato palestinese. Hamas invece lavorava per colpirci, trovandoci del tutto impreparati. Basta pensare che, alla vigilia del 7 ottobre, il governo stava trattando per aumentare il numero dei permessi di soggiorno giornalieri rilasciati agli abitanti di Gaza per lavorare In Israele.
Qual è la reazione che ricevi dai tuoi interlocutori italiani quando descrivi la realtà di Israele oggi?
A dire la verità, non sono sicuro che comprendano esattamente la situazione che vive Israele oggi. In generale, credo che gli italiani, anche nel momento più buio della loro storia, come gli anni del fascismo o quelli della guerra, non si sono mai dovuti porre la domanda: “continueremo a vivere domani?” Questa invece è la condizione che vive il Israele oggi.
Vorrei trattare un ultimo argomento. Si tratta degli stupri e delle violenze che sono state perpetuate da Hamas in modo ripetitivo ed efferato contro le donne israeliane il 7 ottobre, che continuano ancora oggi nei confronti degli ostaggi.
Questo è uno dei traumi più difficili da affrontare, sul quale l’intera società discute costantemente. Quello che più ha ferito la società israeliana è che per mesi l’opinione pubblica internazionale ha mostrato scetticismo nei confronti delle denunce che facevamo di tutte le violenze subite dalle donne israeliane. Anche l’Onu, ha mostrato tale diffidenza, e solo di recente è arrivata in Israele una missione Onu ad hoc, vi è rimasta per alcuni giorni, e finalmente ha compreso questa immane tragedia. L’organizzazione metodica delle violenze sessuali è stata confermata anche dal materiale trovato nei rifugi di Hamas a Gaza, in cui sono state rinvenute le direttive che incitavano i miliziani all’utilizzo sistematico dello stupro, come strumento di lotta. Le conferme sono poi arrivate dagli ostaggi liberati, da cui sappiamo che le donne prigioniere ancora oggi sono soggette a queste forme di violenza. In Italia invece abbiamo assistito alla negazione del fenomeno proprio da parte di molti movimenti femministi nonché di donne influencer. Questa negazione della violenza subita dalle donne israeliane ha colpito molto, perché è come se ci fossimo sentiti colpiti un’altra volta dalla violenza.