Israele combatte una guerra dura e difficile, ma necessaria
Che impatti avrà la guerra sull’economia israeliana? L’attacco di terra era inevitabile? Che responsabilità ha il governo Netanyahu nella situazione in cui si trova il paese? Riflessi lo ha chiesto a Yoram Gutgeld, ex parlamentare
Yoram Gutgeld, con che sentimenti Israele si prepara a entrare nel terzo mese di guerra?
Credo con rabbia, determinazione, preoccupazione e speranza. Rabbia per quello che è accaduto, rivolta soprattutto contro la politica e le altre istituzioni che dovevano vigilare. Determinazione, quella a vincere questa guerra ed eliminare Hamas. Preoccupazione, sia per i soldati che combattono e muoiono che ovviamente per gli ostaggi. E speranza, quella di riprendere quanto prima la vita normale.
Che effetti sta producendo la guerra sul sistema economico israeliano?
Rispetto ad alcune analisi ottimistiche che stanno emergendo, preferisco tenere una posizione più interlocutoria. Certo, l’economia israeliana è fortissima, paragonabile a una piccola Silicon Valley al centro del Mediterraneo. In un paese così piccolo l’high-tech ha un fortissimo impatto sull’economia, ed è la causa di un tasso di crescita del PIL pro capite più alto al mondo. Anche per questo la guerra finora ha avuto un effetto relativamente limitato, ma questo non sorprende: il paese, a parte i primi giorni, ha subito cominciato a reagire. le persone richiamate nell’esercito vengono pagate dallo Stato, il che produce un aumento del circa l’1% del PIL di ulteriore deficit, che dal punto di vista della finanza pubblica, in un paese che ha un debito attorno al 70%, non rappresenta un problema. Nel breve termine è atteso un calo del PIL, tutto sommato però moderato, perché le persone continuano a lavorare e a consumare. Rispetto all’emergenza del Covid, ad esempio, che ha costretto il paese a fermarsi per parecchie settimane, stavolta non c’è stato nessun arresto.
E nel medio lungo periodo?
La guerra probabilmente andrà avanti per molti mesi, e l’impatto sul sistema economico potrebbe essere più forte. Inoltre dobbiamo aggiungere altri due elementi strutturali per riuscire a disegnare un macro scenario.
Quali sono?
Il primo fattore da considerare è il forte aumento della spesa militare, probabilmente il più forte dal 1973. Cinquant’anni fa la guerra del Kippur inaugurò un decennio di forte spesa militare che però ebbe il risultato di frenare l’economia del paese. Oggi non possiamo dire se l’effetto sarà lo stesso, perché l’economia israeliana è molto più forte di quella di cinquant’anni fa, però è un rischio da considerare.
E il secondo fattore?
Il secondo elemento è tutto politico. La mia convinzione è che il governo nato dopo le ultime elezioni, di estrema destra, già prima della guerra si era incamminato in un percorso che stava penalizzando l’economia israeliana, in quanto l’incertezza le forti proteste e il tentativo di modificare il sistema della giustizia israeliana aveva già prodotto un freno agli investimenti privati, i quali non sono mai propensi a operare in un sistema con regole incerte. Dell’enorme negatività che stiamo vivendo con questa guerra un effetto paradossale è che forse essa determinerà comunque un risultato positivo, ossia l’avvicendamento del governo di Netanyahu passando per nuove elezioni e per nuovi equilibri politici che porteranno Israele di nuovo nel tracciato degli ultimi vent’anni.
Tornando invece a quel che succede sul campo, si moltiplicano le analisi militari e le valutazioni di esperti. Qual è l’impressione che si ha osservando l’andamento della guerra da Israele?
In generale, direi che bisognerebbe fare attenzione alle valutazioni di diversi sedicenti esperti militari. Ritengo ad esempio ridicolo anche solo il sospetto complottista che Israele sapesse dell’attacco imminente. La mia spiegazione, piuttosto, è che tutto ciò che è accaduto dal 7 ottobre è in buona parte responsabilità di Netanyahu.
Perché?
Circa 15 anni fa, quando Netanyahu tornò al governo dopo l’esperienza di Olmert, si ritrovò a gestire forti proteste sociali a causa della crisi economica che dagli Stati Uniti si era diffusa in tutto l’occidente e che in Israele stava avendo conseguenze gravi, viste le fortissime diseguaglianze che già allora il paese stava conoscendo. Ricordo infatti che benché Israele sia un paese ricco, all’interno ci sono forti disuguaglianze tra, per esempio, chi ha stipendi altissimi lavorando nel sistema hi-tech, e chi invece in altri settori dispone di un reddito insufficiente a vivere in un grande centro abitato. Per cercare di arginare le proteste sociali che mettevano a rischio la sua leadership, Netanyahu ha utilizzato un doppio stratagemma: ingigantendo la minaccia iraniana, e costruendo il suo nemico preferito, ossia Hamas.
Sta dicendo che l’Iran non è un pericolo per Israele?
Iran è chiaramente una minaccia, non solo per Israele ma per tutta l’area. Basti pensare a come ha finanziato in questi anni il terrorismo in Libano oppure in Yemen. Israele ha fatto bene a sabotare il programma nucleare iraniano, ma forse non è la più grande minaccia per l’umanità come Netanyahu dichiarò alle Nazioni Unite.
E per quanto riguarda Hamas?
Anche qui Netanyahu ha acconsentito attraverso un sistema di triangolazioni che un flusso continuo di danaro raggiungesse Hamas, passando per il Qatar. Il suo obiettivo era creare un’alternativa all’ANP, in modo che i due movimenti, che si odiano, si facessero concorrenza annullandosi a vicenda. Insomma, per molti anni Hamas è stato il nemico perfetto per Israele, perché in cambio di tale contrapposizione all’autorità palestinese Israele doveva tollerare solo brevi scontri armati periodici. Quello che Netanyahu non ha compreso, purtroppo, è che in questi anni Hamas aumentava la propria capacità militare, continuava a costruire tunnel, si preparava ad un attacco e tutto questo sotto gli occhi di Israele. A mio avviso tutto ciò è potuto accadere perché Netanyahu era convinto che Hamas non avrebbe compiuto nulla di simile di quel che è successo il 7/10, e questa sua convinzione si è trasmessa a tutti gli apparati dello Stato, civili e militari, che hanno sottovalutato i segnali che c’erano.
Una delle critiche che vengono mosse a Israele e che non sarebbero chiari gli obiettivi di questa guerra, o meglio, che se l’obiettivo è decapitare Hamas, questo è irrealizzabile, sia per la complessità della situazione a Gaza sia perché la testa dell’organizzazione sarebbe altrove.
La testa di Hamas è a Gaza. Le persone che si trovano in Qatar o altrove in realtà contano meno. Al contrario, io credo che Israele sia in grado di colpire i capi di Hamas che si nascondono a Gaza. Il metodo che sta utilizzando sul terreno è abbastanza chiaro: c’è un primo attacco per via aerea, cui segue poi l’occupazione progressiva e sistematica del territorio, grazie a unità speciali, che identificano e eliminano gradualmente i tunnel. A questo proposito, è ormai evidente che tutta la Striscia di Gaza è profondamente intrecciata con le strutture terroristiche di Hamas, visto che i tunnel si trovano nelle case, nelle moschee e negli ospedali.
Intervenire nella Gaza sotterranea non ha però ha dei costi militari e soprattutto umani insostenibili?
Non è detto. Sappiamo al momento che Israele entra nei tunnel attraverso i cani, i droni, e solo dopo con i militari. Anche le perdite, arrivate a circa 150 uomini, ci dicono che la media per quanto tragica è di quattro soldati al giorno, molto meno di quanto si poteva temere. È vero piuttosto che l’operazione richiederà mesi e che la situazione umanitaria a Gaza è fortemente critica, aggravata dalla volontà di Hamas di farsi scudo della popolazione. Direi quindi che in una prospettiva militare Israele dovrebbe cercare a realizzare i suoi obiettivi nel minor tempo possibile.
La comunità internazionale fa però pressioni su Israele per arrestare la sua azione militare sulla base dei circa 20.000 morti dichiarati da Hamas.
Innanzitutto dobbiamo essere consapevoli che questa cifra non corrisponde alla verità. Le faccio pochi esempi: in alcuni giorni il bollettino di Hamas afferma che il numero di bambini e donne uccisi è stato superiore al numero totale dei morti dichiarati nella stessa giornata. Nel 2006, in occasione di un altro scontro, si certificò successivamente al termine delle ostilità che il numero delle vittime era di un terzo inferiore a quello dichiarato. Inoltre dal numero totale delle vittime dobbiamo togliere gli affiliati ad Hamas, da considerare legittimi obiettivi militari di Israele. Infine da questo numero di vittime dobbiamo sottrarre alla responsabilità di Israele quelli morti a seguito del malfunzionamento dei razzi di Hamas e delle altre organizzazioni terroristiche, come dimostrato nell’ospedale Battista di Gaza alla metà di ottobre, quando Hamas dichiarò subito dopo l’incidente che Israele aveva provocato 500 morti, poi ridotti a 20 quando i fatti hanno dimostrato che si trattò di un razzo della jihad islamica malfunzionante.
Resta comunque il problema delle migliaia di morti civili causati dall’azione militare di Israele.
Certamente il problema resta e certamente fra quei morti ci sono molte persone innocenti, tra cui molti bambini. Tuttavia credo che l’operazione di Israele sia giustificata. Le leggi di guerra consentono di attaccare obiettivi militari anche nella presenza di civili rispettando alcune condizioni che l’IDF cerca di seguire. C’è poi un altro fatto che rende così drammatica l’intervento di Israele.
Quale?
I fatti ci stanno dimostrando, come dicevo prima, che Gaza è una terra in cui Hamas si è ormai infiltrata in ogni casa provocando un intreccio mortale per la popolazione civile. Ora che Israele è intervenuta sul terreno ha potuto provare quel che in realtà si sapeva da tempo, e cioè che gli ospedali ad esempio sono centri operativi e militari. Purtroppo anche le organizzazioni internazionali hanno delle colpe. I testi scolastici di UNRWA indottrinano all’antisemitismo. È stato inoltre scoperto che almeno uno degli ostaggi liberati era stato tenuto da insegnanti dell’UNRWA.
Si avvicina l’inizio del quarto mese di guerra: è ancora troppo presto per immaginare la fine del conflitto?
Capisco l’urgenza che molti provano di fronte a queste settimane di guerra, perché il conflitto termini il prima possibile. Ed è bene che se ne ragioni. Ma l’incertezza al momento è ancora molto alta: l’esito della guerra sul campo, le leadership future in Israele e a Gaza, la disponibilità di altri paesi arabi di intervenire e cosi via. Poi più avanti si dovrà ragionare su un processo di pace duraturo compreso l’idea di uno stato palestinese sovrano, ma al momento questo è prematuro
Un’ultima domanda: lei è stato parlamentare italiano fra il 2013 e il 2018, quale consigliere economico dell’allora premier Matteo Renzi. Anche in base alla sua esperienza politica, come giudica il posizionamento dei partiti italiani sulla guerra tra Israele e Hamas?
Per quel che riguarda il governo, tutto sommato mi pare che si sia allineato alle posizioni della Germania e degli Stati Uniti, che trovo ragionevoli. Per quel che riguarda invece il Partito democratico, mi sembra che subisca la forte concorrenza del Movimento 5 stelle. Direi, con una battuta, che il PD è ancora in cerca della sua identità. Anche su questa guerra.