Il padiglione israeliano alla 60a Biennale di Venezia rimarrà chiuso: fino a quando?
Tra due giorni si apre la Biennale di Venezia, segnata quest’anno dalla clamoroso protesta del padiglione israeliano
La 60a edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, che aprirà ufficialmente il 20 aprile 2024, vedrà la struttura del Padiglione di Israele chiusa ai visitatori. All’ingresso è stato apposto un cartello che recita così: “l’artista e i curatori del Padiglione di Israele apriranno il Padiglione quando ci sarà il cessate il fuoco e verrà raggiunto un accordo per la liberazione degli ostaggi”.
Si tratta di una decisione presa dall’artista Ruth Patir e dalle curatrici Mira Lapidot e Tamar Margalit e ovviamente va interpretata alla luce degli eventi che riguardano la situazione venutasi a creare in seguito all’atroce e sanguinario attacco del 7 ottobre 2023, perpetrato da Hamas nei riguardi dei kibbutzim e dei villaggi in territorio israeliano e del successivo aspro conflitto che si è sviluppato all’interno della Striscia di Gaza.
Ma andiamo con ordine.
A febbraio l’ANGA, cioè Art Not Genocide Alliance, aveva promosso un appello, che aveva raccolto circa 15000 firme di artisti di tutto il mondo, in cui si chiedeva l’annullamento del programma espositivo relativo al Padiglione di Israele. Nell’appello si sosteneva che dare spazio alle iniziative culturali israeliane nelle quali fosse coinvolto ufficialmente lo Stato di Israele significasse dare legittimità alle “politiche genocide a Gaza”.
Questa inquietante e scorretta richiesta di esclusione, che successivamente ha riguardato anche l’Iran, è stata a suo tempo respinta sia dal Ministro Sangiuliano che dallo stesso Ente culturale veneziano che si è espresso chiaramente con un comunicato nel quale si sosteneva che “ In merito alla partecipazione all’Esposizione Internazionale d’arte di Paesi presenti nei padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e in città, La Biennale di Venezia precisa che tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica Italiana possono in totale autonomia richiedere di partecipare ufficialmente. La Biennale, di conseguenza, non può prendere in considerazione alcuna petizione o richiesta di escludere la presenza di Israele o Iran dalla prossima 60a Esposizione Internazionale d’Arte.”
Questa vicenda va, ovviamente, inquadrata nell’inaccettabile fenomeno che riguarda, da tempo, il tentativo di discriminazione su basi ideologiche ed estremistiche della sfera accademica e culturale di Israele che, tra le altre cose, rappresenta di fatto uno degli strati più progressisti della società israeliana.
Negli ultimi giorni è, infine, giunta la presa di posizione dell’artista e delle curatrici. La loro decisione va certamente considerata alla luce di quel processo di tensione sociale e politica che evidentemente renderebbe il Padiglione Israeliano non più luogo di espressione di cultura e di nuove prospettive artistiche ma fonte di sterili polemiche e volgari strumentalizzazioni.
Gli spazi del Padiglione, dunque, rimarranno chiusi fino a che non ci saranno le condizioni che permetteranno di aprirlo al pubblico e non si concretizzeranno i punti presenti nel cartello affisso al suo ingresso. Nel frattempo, chi andrà a visitare l’Esposizione Internazionale d’Arte potrà, comunque, tentare di vedere da fuori l’installazione (intitolata M Otherland) concepita da Ruth Patir. L’artista e le curatrici, infatti, hanno lavorato come se il Padiglione dovesse aprire a tutti gli effetti.
Ruth Patir, in un passaggio di un comunicato che ha accompagnato la decisione di non aprire lo spazio espositivo israeliano afferma: “Come artista ed educatrice, mi oppongo fermamente al boicottaggio culturale, ma ho notevoli difficoltà nel presentare un progetto che parli della vulnerabilità della vita in un momento di insondabile disprezzo per essa”.
Si tratta, certamente, di parole comprensibili e del tutto legittime, ma che lasciano l’amaro in bocca, poiché proprio l’arte di Ruth Patir avrebbe potuto rappresentare un’occasione per poter riflettere e dibattere su questioni molto importanti, anche di attualità.
L’installazione, formata da quattro diversi video (Petah Tikvah, Waiting, Intake, Retrieval Stories e Motherland) situati al primo piano del Padiglione e al piano ammezzato, è incentrata sulla rappresentazione della relazione tra istanze personali e individuali ed elementi strutturali nazionali. Le esperienze soggettive di diagnosi di “mutazioni genetiche” vengono correlate alla dimensione maschile del mondo delle cosiddette istituzioni mediche. A simboleggiare la condizione femminile sono delle statuette risalenti a un periodo che va tra l’800 e il 600 a.C. e che sembrano ricondurre alla raffigurazione del concetto di fertilità.
Al piano terra è, invece, collocato un quinto video, intitolato Keening, che fa stretto riferimento ai fatti bellici che si sono scatenati a partire dal 7 ottobre. Nell’opera vengono ancora utilizzate le statuette antiche correlate a una miriade di frammenti che miracolosamente si manifestano in una sorta di processione piena di angoscia e di profondo dolore.
Ebbene, per fruire pienamente di questa interessante operazione artistica bisognerà, come già detto, che si verifichino le condizioni dell’annuncio apposto all’ingresso del Padiglione.
Nel frattempo, gli artisti, gli intellettuali e gli accademici israeliani continueranno il loro lavoro di ricerca e di studio, nella speranza che l’idea vergognosa di boicottare la cultura lasci spazio al desiderio di conoscenza e di diffusione dell’arte e del pensiero.